articolo di Chiara Gargiuli

Il trauma collettivo come paradigma di senso nella ricerca artistica occidentale contemporanea

Chiara Gargiuli

Nel 1980, l’American Psychiatric Association inserisce per la prima volta, nella terza edizione del proprio manuale, i sintomi di una nuova malattia: il disturbo post-traumatico da stress, una condizione di salute mentale che può svilupparsi in alcuni individui dopo aver vissuto o assistito a una situazione traumatica[1].

Quando si vive un evento potenzialmente traumatico, il sistema nervoso simpatico manda una serie di stimoli al corpo che permette di rispondere con una reazione di attacco o fuga[2]. Se la risposta ha successo, e riusciamo ad allontanarci dalla minaccia, il nostro corpo riprende il proprio equilibrio e supera l’accaduto. Se, invece, la risposta viene bloccata e siamo impossibilitati ad allontanarci fisicamente, il cervello continuerà a inviare i medesimi stimoli invano, non solo a distanza di ore dalla fine dell’evento, ma ogni volta che la situazione sembra riproporsi[3].

Se la società postmoderna è caratterizzata da un forte scetticismo verso le grandi narrazioni[4] e da una maggiore attenzione verso le esperienze individuali, la destigmatizzazione della terapia e l’incremento della consapevolezza sulla salute mentale hanno comportato una maggiore familiarità non solo con il concetto di trauma, ma anche l’estensione dello stesso oltre il contesto di guerra in cui è stato teorizzato. Esso può, infatti, avere origine da abusi fisici, sessuali o psicologici, discriminazioni, pregiudizi; in base alle condizioni in cui si è generato, possiamo distinguere diverse tipologie, come ad esempio il trauma culturale, quello razziale, quello istituzionale; quando costituisce una ferita comune a più individui, viene definito trauma collettivo[5]. A differenza di quello individuale, che colpisce una persona in base al suo vissuto, il trauma collettivo implica un’esperienza condivisa che ha un impatto profondo su una comunità più ampia, con effetti sull’identità dei membri che ne fanno parte, su una coesione o frammentazione sociale e sulle espressioni culturali di quel gruppo[6].

L’esposizione costante a eventi globali, il sovraccarico di informazioni, l’impossibilità di sfuggire alla consapevolezza del disastro ambientale o dell’ingiustizia sociale[7], l’essere attivamente partecipi di innovazioni tecnologiche molto rapide e tra loro ravvicinate[8], la difficoltà a tenere il passo con i nuovi modelli narrativi: tutti questi fattori contribuiscono ad alimentare la condizione di un trauma collettivo contemporaneo, che può trovare una sintesi nella frammentazione del sé postmoderno. Di fronte alle narrazioni distopiche che costituiscono la nostra realtà, l’identità subisce traumi costanti, ai quali non solo non può reagire in maniera efficace[9] ma, soprattutto, non può sottrarsi mai. La grottesca e assurda ‘timeline sbagliata’[10] in cui siamo entrati contribuisce a confondere il confine tra materiale e immateriale, tra reale e virtuale[11], che a sua volta mette in discussione il concetto di linearità del tempo.

Tutto questo sembra tradursi in linguaggi artistici che raccolgono, indagano, archiviano: gli artisti contemporanei, con particolare riferimento alla cultura occidentale, lavorano creando una narrazione che, come se fossimo giunti alla fine dei tempi[12], cerchi di dare un senso a quanto è stato. D’altra parte, se nel contemporaneo il tempo lineare viene meno a favore di un eterno presente, in cui passato e futuro collassano in un flusso continuo di esperienze frammentate[13] (esattamente la stessa condizione di annullamento temporale provocata dagli eventi traumatici, dove è sufficiente un innesco per generare la medesima reazione fisica anche a distanza di anni), non sorprende che gli artisti sentano il bisogno di far riferimento a linguaggi tradizionali: questo processo, se da una parte permette una riscrittura delle narrazioni attingendo ai precedenti storici e alle eredità artistiche, testimonia anche una ricerca subliminale di stabilità a fronte del frenetico delirio postmoderno[14].

Per approfondire queste tematiche può avere un valore esemplare l’analisi di un’opera del 2018 di Andrea Mastrovito, il cui titolo è Le jardin des histoires du monde, recentemente esposta presso Palazzo Braschi per il programma di mostre della Quadriennale di Roma Quotidiana[15]. L’opera, realizzata a intarsio ligneo, è un lungo fregio che racconta, in toni tragici, le criticità della cultura occidentale. La scelta della tragedia – tema evidenziato nel suo testo critico dal curatore della mostra Nicolas Martino[16] ─ è particolarmente significativa: per Arthur Miller, d’altronde, il diritto tragico è la condizione di vita in cui la personalità umana è in grado di fiorire e realizzarsi[17], di creare, cioè, qualcosa che ne rappresenti l’identità – a maggior ragione quando a questa non si riesce a dare una definizione[18]. Mastrovito utilizza un linguaggio visivo di tipo narrativo come strumento per processare il trauma di vivere alla fine dei tempi, elevando il vissuto umano a racconto mitico, e contrapponendo scene contemporanee – come le immagini delle rivolte di Baltimora – a iconografie leggendarie. La sublimazione, processo di raffinamento e trasformazione, diventa il fulcro della sua narrativa: Lucrezia Longobardi parla di catarsi inversa[19]. È attraverso questa lente che egli esplora le profondità dell’esperienza umana, dando forma a una tragedia che non si appoggia sulla realtà cruda, ma su una rielaborazione estetica apollinea e concettuale. Diversamente da artisti come Thomas Hirschhorn e Teresa Margolles, con i quali Longobardi propone un confronto, l’estetica dell’opera di Andrea Mastrovito, apparentemente serena e ordinata, è solo l’inizio di un viaggio che ci conduce verso la cruda realtà della condizione umana postmoderna, che deve fare i conti con l’esperienza di un vissuto che è eterno presente. La catarsi che l’artista propone non eleva, non guarda oltre, ma riporta alla terra, ricordandoci la nostra essenza ferita, frammentata, imperfetta e terrena.

Un diverso approccio può trovarsi nella ricerca di Kara Walker, artista che ricontestualizza le narrazioni storiche sollecitando un esame critico dei sistemi in cui potere e violenza hanno plasmato l’esperienza americana. In assenza di strumenti univoci per comunicare un presente travolgente e frammentario, il racconto mitico sembra diventare la risorsa linguistica per eccellenza dell’esplorazione del trauma collettivo. Ne è un esempio quello degli abusi razziali, come testimonia l’installazione Slavery! Slavery! Presenting a GRAND and LIFELIKE Panoramic Journey into Picturesque Southern Slavery[20] (1997), in cui grottesche ed enormi sagome nere disegnate su carta vengono assemblate dall’artista su uno sfondo bianco, in una rappresentazione dettagliata e inquietante della vita nelle piantagioni del Sud americano[21]. L’artista racconta il trauma collettivo della schiavitù, presentando un’esplorazione critica delle istituzioni, addentrandosi nelle complessità delle dinamiche di potere, dell’identità razziale e della disumanizzazione: la riaffermazione pubblica del dolore di una ferita collettiva è un modo per acquisire controllo e rivendicare la propria narrazione. L’operazione è estremamente consapevole[22] e, come nel caso di Les jardins des histoires du monde, identifica nel racconto mitico una fonte di guarigione, nonché la possibilità di narrazioni nuove e curative. È bene sottolineare, tuttavia, che la poetica di Walker risulta, comunque, ben diversa da quella di Mastrovito, a cui si relaziona in maniera quasi speculare: l’artista americana scava a fondo nella realtà brutale e caotica della schiavitù, presentando scene emotivamente intense e spesso inquietanti – la violenza è esplicita e denunciata fin da subito, e non celata dietro un ordine compositivo. L’installazione si allinea esteticamente all’impulso dionisiaco di confrontarsi con gli aspetti caotici, dolorosi e traumatici dell’esperienza umana, provocando una reazione viscerale e catartica attraverso la rappresentazione degli abusi.

Similmente a Walker, l’artista Chiara Fumai propone spesso una critica sociale nella possibilità di un riscatto dalle narrazioni dominanti, in una prospettiva femminista. «Compagne», «sorelle», «alleate»: la guarigione dal trauma collettivo è un’azione corale, ed è così che l’artista evoca i personaggi che interpreta[23] in performance come The Book Of Evil Spirits (2015), rappresentazione di una seduta spiritica durante la quale il corpo di Fumai diventa tramite per diverse figure storiche femminili, tra cui Eusapia Palladino, Annie Jones, Zalumma Agra, Ulrike Meinhof. La pratica medianica permette all’artista di trascendere ogni limite temporale[24], collocando il passato nel presente e dando la possibilità a queste donne di raccontare e raccontarsi[25] – in un’operazione che di per sé rivendica la lingua pulsionale e isterica[26] dell’esoterismo, pregiudizio di una società patriarcale che concede al genere femminile solo ruoli attinenti alla sfera dell’irrazionalità[27]. L’interpretazione del ruolo della medium diventa un atto metanarrativo: l’artista stessa, nel momento della sua performance, fa del suo corpo un canale catartico e curativo multidirezionale, che permette l’elaborazione del passato e la possibilità di ipotesi alternative.

Anche le opere di Kader Attia si confrontano con la dimensione del trauma attraverso una narrazione mitica, esplorando aspetti storici e culturali che hanno lasciato cicatrici durature negli individui e nelle comunità. In The Repair from Occident to Extra-Occidental Cultures (2012), l’artista francese esplora il concetto della riparazione come modo di guarire il trauma collettivo dell’identità post-coloniale: l’atto di riparare diventa un’impresa simbolica, rappresentando il recupero dell’autonomia e dell’identità culturale e proponendo una riflessione sul contesto storico di ciascun oggetto[28]. Dopo aver raccolto articoli danneggiati in diverse parti del mondo, Attia prova a ripararli secondo metodi a volte tradizionali, altre completamente improvvisati. Incorporando oggetti di varie culture e utilizzando diversi metodi di riparazione, l’artista sottolinea la molteplicità delle narrazioni possibili, costituendo un archivio di storie diverse che condividono la ferita del colonialismo. Se da un punto di vista estetico – come già visto per il lavoro di Mastrovito – la raccolta delle narrazioni trascorse permette di distinguerle dalla frammentata e caotica esperienza postmoderna del tempo presente, l’operazione di Attia presenta ulteriori affinità tematiche con il lavoro di Fumai. Entrambi gli artisti, nelle rispettive pratiche, intervengono attivamente sulle ferite ancora aperte di un passato traumatico, cercando di guarirle attraverso un atto performativo-curativo: la pratica medianica di Fumai e la riparazione di Attia restituiscono una voce alle gueles cassées[29], silenziate dalle istituzioni.

Questa e altre fratture, invisibili ma pervasive, che dividono le società e perpetuano l’ingiustizia, sono spesso invisibilizzate[30]. Nell’installazione monumentale Shibboleth[31] (2007), l’artista colombiana Doris Salcedo cerca di renderle visibili, creando una lunga crepa nel pavimento della Turbine Hall della Tate Modern di Londra, a simbolo delle profonde divisioni dei gruppi culturali e razziali, con particolare riferimento alle comunità emarginate. L’opera restituisce un’immagine fisica viscerale di una ferita traumatica che fa parte della nostra esperienza quotidiana, ma che non possiamo toccare: mettendo gli spettatori di fronte alla manifestazione di queste divisioni, Salcedo invita a riflettere sul ruolo del potere e del privilegio nella perpetuazione del trauma collettivo.

Se, come visto, i lavori di Kara Walker sono caratterizzati da sagome dettagliate e narrative (spesso con espliciti riferimenti storici), Salcedo, invece, impiega minimalismo e astrazione per trasmettere il proprio messaggio. Le due artiste, tuttavia, presentano una rilevante affinità, indipendentemente dall’uso di media differenti: più che la volontà di catalogare ed archiviare il passato per dare un senso al presente (riscontrata nei lavori di Attia e Mastrovito), o quella di eseguire un atto performativo-curativo che riscatti il passato (come nella riparazione di Attia e nella performance di Fumai), a dominare i lavori di Walker e Salcedo è il processo di guarigione che avviene nel momento della fruizione delle opere, che diventano un momento di catarsi collettiva nel confronto con una verità dolorosa, rappresentata nella sua più vera crudezza. Le intricate scene di Walker obbligano lo spettatore a confrontarsi con scomode verità sulla storia e sull’identità, mentre Shibboleth di Salcedo costringe gli spettatori a navigare fisicamente nello spazio intorno alla crepa, rendendoli consapevoli delle divisioni metaforiche che essa rappresenta: entrambe le artiste rendono tangibili, ingombranti, e sconvenienti ferite che, seppur invisibili, determinano il nostro vissuto.

L’espressione artistica può, tuttavia, risuonare con una comprensione del trauma come fonte non solo di sofferenza, ma anche come catalizzatore di crescita: in Anastasis (2018), Giorgio Andreotta Calò fa riferimento a una resurrezione[32]. Grazie all’utilizzo della luce rossa, l’artista riporta nell’Oude Kerk di Amsterdam l’idioma visivo cattolico romano, richiamando la furia iconoclasta del 1566, appropriandosi di una narrazione stabile e costruendo un’esperienza tangibile: questa operazione di integrazione con il passato evoca un senso di continuità di fronte a sconvolgimenti storici del tessuto sociale[33]. Lo scafo rovesciato della nave che costituisce la struttura centrale di Anastasis può essere interpretato come un rovesciamento delle aspettative convenzionali, che invita gli spettatori a riconsiderare la loro comprensione del trauma, impegnandosi nella riflessione e nella contemplazione. Come Walker e Salcedo, Calò interviene sul momento catartico della fruizione, superandone però la tensione ed offrendo, in un ribaltamento fisico e metaforico, la possibilità di una guarigione nel confronto con l’opera stessa.

Gli artisti selezionati appartengono a contesti generazionali, culturali e geografici diversi: questo si traduce in scelte estetiche e tematiche talvolta distanti tra loro. Tuttavia, come visto, i punti di contatto sono numerosi e vanno a determinare nuove chiavi di lettura della frammentarietà del nostro presente. La necessità di adottare la tragedia come modello narrativo, di indagare il contemporaneo con gli strumenti del passato e di elevare il presente a racconto mitico testimoniano una duplice tendenza, riscontrabile nei casi-studio presi in esame: da una parte quella di cercare sicurezza in paradigmi già consolidati e coerenti (perché ciò che, invece, si racconta appare incoerente, grottesco – nuovamente, una timeline sbagliata); dall’altra, quella di creare un distacco emotivo catartico rispetto a quanto viviamo, che ci permetta di relazionarci alle opere con senso critico e di guarire dal trauma collettivo dell’eterno presente.


[1] Sebbene se ne fossero chiaramente già verificati i sintomi a seguito dei due conflitti mondiali (ancora descritti come shell shock, ‘shock da granata’ o ‘da esplosione’), l’evento determinante per la comprensione del fenomeno fu il rientro dei soldati americani dalla guerra del Vietnam. Cfr. M. Horowitz, Stress Response Syndromes: Character Style and Dynamic Psychotherapy, in «Archives of General Psychiatry», 31.6, 1974, pp. 768-781; T. Millon, The DSM-III: An Insider’s Perspective, in «American Psychologist», 38.7, 1983.
[2] Fight or Flight. Si tratta di un meccanismo integrato fondamentale per la sopravvivenza: esso prepara l’organismo ad affrontare la minaccia (fight) o a fuggire da essa (flight). W.B. Cannon, Bodily Changes in Pain, Hunger, Fear, and Rage, Appleton-Century-Crofts, New York 1929.
[3] Nello specifico, questo fenomeno non è limitato a situazioni effettivamente affini a quella vissuta: il ricordo fisico (ed involontario) del trauma potrebbe far vedere al soggetto anche circostanze innocue come pericolose e temibili. A.A. Lima et al., The Impact of Tonic Immobility Reaction on the Prognosis of Posttraumatic Stress Disorder, in «Journal of psychiatric research», 44.4, 2010, pp. 224-228.
[4] Lo scetticismo nei confronti delle grandi narrazioni del postmodernismo riflette il rifiuto di spiegazioni totalizzanti e il riconoscimento dei valori della complessità, della contingenza e della pluralità come propri dell’esperienza umana. Esso apre lo spazio a voci e a prospettive alternative per sfidare i discorsi dominanti e le strutture di potere, negando assolutismi e verità consolidate. Cfr. J.-F. Lyotard, The Postmodern Condition in The Postmodern Turn: New Perspectives on Modern Theory, S. Seidman (a cura di), Cambridge University Press 1994; M. Foucault, Power / Knowledge in The New Social Theory Reader, S. Seidman, J. C. Alexander (a cura di), Routledge, Londra 2020, pp. 73-79; J. Derrida, The Deconstruction of Actuality: An Interview with Jacques Derrida in Decontrusction: A Reader, S. Malpas, P. Wake (a cura di), Routledge, Londra 2017; nello specifico, sulle critiche postcoloniali dell’imperialismo e colonialismo occidentale, cfr. E.W. Said, Culture and Imperialism, Vintage, New York 2012; G.C. Spivak, A Critique of Postcolonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 1999; H.K.Bhabha, The Location of Culture, Routledge, Londra 2012.
[5] A. Collins, Culture, Narrative and Collective Trauma in «PINS (Psychology in Society)», 48, 2015, pp. 105-109; B.A. Van der Kolk, Psychological Trauma, APA Publishing, Washington 2003.
[6] R. Eyerman, J.C. Alexander, Cultural Trauma and Collective Identity, University of California Press, Berkeley 2006.
[7] In relazione all’“Ecological Grief”, cfr. A. Cunsolo, N.R. Ellis, Ecological Grief as a Mental Health Response to Climate Change-Related Loss, in «Nature Climate Change», 8.4, 2018, pp. 275-281.
[8] In relazione all’“onlife”, cfr. L. Floridi, The Onlife Manifesto: Being Human in a Hyperconnected Era, Springer Nature 2015. In relazione alla web society come modello sociologico, cfr. A. Alfieri, C. Gargiuli, Perturbante postmoderno: immagini inquietanti nella comunicazione e nell’arte del XXI secolo, Rogas, Roma 2022.
[9] Forse, in Italia l’ultima traccia di ottimismo rispetto alla possibilità di agire si è spenta con i fatti del G8 di Genova del 2001. Cfr. S. Palidda, Appunti di ricerca sulle violenze delle polizie al G8 di Genova. Studi sulla questione criminale, Carocci Editore, Roma 2008.
[10] M. Salvia, Interregno. Iconografie del XXI secolo, Nero edizioni, Roma 2022.
[11] In relazione alla web society, cfr. M. Castells, The Internet Galaxy: Reflections on the Internet, Business, and Society, Oxford University Press, Oxford 2002. In relazione ai fenomeni che definiscono il periodo postmoderno, cfr. A. Alfieri, C. Gargiuli, Perturbante postmoderno, cit. In relazione ai processi che contribuiscono alla confusione tra materiale e immateriale, cfr. P.M. Leonardi, B.A. Nardi, J. Kallinikos, Materiality and Organizing: Social Interaction in a Technological World, Oxford University Press, Oxford 2012.
[12] S. Zizek, Vivere alla fine dei tempi, Adriano Salani, Milano 2011.
[13] Questo processo, coerente con l’allontanamento dalle grandi narrazioni (cfr. nota 4) sembrerebbe causato dalla perdita di fiducia nelle verità assolute. Si può individuare un riscontro estetico nel passaggio dalla storia alla neo-storia, dal kitsch al neo-kitsch. In relazione all’eterno presente, cfr. J.-F. Lyotard, The Postmodern Condition, cit. In relazione alla neo-storia e alle tendenze estetiche postmoderne, cfr. A. Alfieri, La cultura videomusicale degli anni Ottanta: tra dispersione del soggetto e dissoluzione della storia, in «Società degli individui», 46, 2013, pp. 139-152.
[14] La già citata mancanza di riferimenti consolidati può tradursi in una forma di critica o commento culturale, che interroga il modo in cui eventi storicizzati continuano ad avere conseguenze nella società contemporanea, proponendo nuove letture. Per ulteriori approfondimenti, cfr. J. Shi, On the 59th Venice Biennale: A Critical Perspective on Hidden Clues, in «International Journal of Education and Humanities» vol. 3, n. 1, 2022, pp. 8-12.
[15] QuotidianaPaesaggio, Nicolas Martino – Res gestae. Romeo Castellucci, Andrea Mastrovito, Museo di Roma, Palazzo Braschi, 26 gennaio – 17 marzo 2024.
[16] N. Martino, Res gestae. Il sentimento tragico della storia nell’arte italiana del XXI secolo, https://quadriennalediroma.org/wp-content/uploads/2024/01/Q_Paesaggio_NicolasMartino.pdf.
[17] A. Miller, Tragedy and the Common Man, in «Jewish Quarterly», 62.4, 2015, pp. 62-63.
[18] A proposito di Romeo Castellucci, che in Resurrection (2022) trasforma la Sinfonia n. 2 di Mahler in una performance teatrale che sottolinea la condanna della guerra, fenomeno inevitabile nell’esperienza umana, Nicolas Martino sottolinea che la tragedia diventa un dispositivo che permette di «elaborare il trauma del rimosso», in N. Martino, Res gestae, cit.
[19] L. Longobardi, L’opera come un teatro tragico. Tre autori a confronto: Thomas Hirschhorn, Teresa Margolles e Andrea Mastrovito, in: https://quadriennalediroma.org/lopera-come-un-teatro-tragico/ (ultimo accesso 15 luglio 2024).
[20] Un altro titolo che l’artista dà alla medesima opera è Life at ‘Ol’ Virginny’s Hole.
[21] Diversamente dalla formalizzazione di Mastrovito, la semplicità del medium utilizzato contrasta con la complessità delle narrazioni trasmesse.
[22] «Mi accorgo che sto riscrivendo la Storia, cercando di farla assomigliare a me, Kara (e a me, negra), ma lo faccio a piccoli pezzi. È un’impresa monomaniacale, ma ci sono molti danni (bianchi e patriarcali) da cancellare», Kara Walker, intervista di A. Subotnick, «Make», 92 (Special Edition 2002), pp. 25-27, tda. https://www.brooklynmuseum.org/eascfa/about/feminist_art_base/kara-walker, (ultimo accesso 15 luglio 2024).
[23] M. Farronato, Le Muse inquietanti di Chiara Fumai tra verità e menzogna, https://www.archiviochiarafumai.it/milovan-farronato/ (ultimo accesso 14 giugno 2024).
[24] C. Martínez, La danza della vita subsenziente e supersenziente di Chiara Fumai, https://www.archiviochiarafumai.it/chus-martinez/ (ultimo accesso 14 giugno 2024).
[25] F.U. Ragazzi, Chiara Fumai Reads Rosalind Krauss: May the Spectator who Wants to Witness a Miracle Please Step Forward, in F.U. Ragazzi, M. Farronato, A. Bellini, a cura di, Poems I Will Never Release. Chiara Fumai 2007-2017, NERO Editions, Roma 2021, pp. 48-81. Potrebbe essere interessante un confronto con la reinterpretazione della Medusa di Hélène Cixous, che riscatta la Gorgone dalle sue tradizionali associazioni con la paura e il dominio maschile, trasformandola in simbolo di potere e creatività femminile. Cfr. H. Cixous, Le rire de la Méduse, «L’Arc», 61, 1975, pp. 39-54.
[26] A. Bellini, Presenze aliene e scrittura nell’opera di Chiara Fumai, https://www.archiviochiarafumai.it/andrea-bellini/ (ultimo accesso 14 giugno 2024).
[27] Per approfondire le posizioni dell’artista, cfr. la performance-lecture Secreto provato (apparizione non autorizzata di Airam Bulc), 2016, 30’ ca., presentata alla 16a Quadriennale d’arte, Altri tempi, altri miti (13 ottobre 2016 – 8 gennaio 2017) in I Would Prefer Not to / Preferirei di no. Esercizi di sottrazione nell’ultima arte italiana, a cura di Simone Ciglia e Luigia Lonardelli.
[28] M. Diawara, Kader Attia, une poétique de la réappropriation, in «Littérature», 2, 2014, pp. 53-62.
[29] Ibid.
[30] Potrebbe essere interessante tenere in considerazione il parallelismo con il modo in cui le condizioni che non sono visibilmente evidenti, come i disturbi mentali e il disturbo post-traumatico da stress, sono spesso oggetto di stigma e incomprensione, in quanto gli atteggiamenti della società possono portare allo scetticismo o al rifiuto delle esperienze degli individui ─ rendendo di conseguenza difficile per loro ricevere convalida e sostegno. Cfr. N.A. Ysasi, A.B. Becton, R.K. Chen, Stigmatizing Effects of Visible Versus Invisible Disabilities, in «Journal of Disability Studies», 4, 1, 2018, pp. 22-29.
[31] Il titolo deriva da una storia biblica in cui i membri di una tribù usavano la parola shibboleth come parola in codice per identificare gli estranei. Per ulteriori approfondimenti, cfr. S. Baraklianou, Silently Disturbing: The Political Aesthetics of Doris Salcedo’s Recent Installations, «Dialogue Webzine», marzo 2008.
[32] Il titolo, che ha origine dal greco ἀνίστημι, che significa “far sorgere, innalzare, alzarsi”, sembra quasi in continuità tematica rispetto all’installazione Senza titolo (La fine del mondo) (2017), realizzata dall’artista per il Padiglione Italia alla 57. Biennale di Venezia.
[33] D’altra parte, la traduzione dei fatti in racconto tragico attraverso una rilettura di un tema storico specifico è un’operazione affine a quella di cercare nel mito uno strumento di comprensione per i fatti stessi.