Lulù Nuti

Levallois-Perret (Francia) 1988
Vive e lavora a Roma e a Parigi
Studio visit di Daniela Trincia
12 settembre 2023

In un’ex carrozzeria di uno squadrato palazzo bianco di Centocelle, dal 2020, insieme ad altri sei artisti, Lulù Nuti ha organizzato il suo studio, nello spazio condiviso del vivace Post Ex, di cui è cofondatrice. Nata in un comune alle porte di Parigi ha sempre vissuto a Roma fino all’inizio degli studi all’École Nationale Supérieure des Beaux Arts. Dopo l’avvio della sua collaborazione con le gallerie Chloé Salgado (Parigi) e Alessandra Bonomo (Roma), nel 2019 decide di ritornare nella Capitale, perché percepita più incline ad accogliere i suoi lavori e, al contempo, per avvalersi di una migliore cooperazione con quegli artigiani che l’assistono nella realizzazione dei suoi progetti. Tra le diverse mostre organizzate in Italia e all’estero, in spazi pubblici e privati, vi sono Sistema (Case del Celio, Roma 2015), Calcare il mondo (Galerie Chloé Salgado, Parigi 2018) e la sesta edizione della collettiva There Is No Place Like Home (ex fabbrica Chinotto Neri, Roma 2021), che maggiormente rappresentano particolari passaggi personali.

Anche se la sua formazione ─ nonché il suo ingresso in Accademia ─ è come pittrice, si è ben presto dedicata alla scultura saldamente inserita nello spazio, senza tralasciare il disegno. Utilizzando vari materiali, molti di scarto, quali cemento, gesso, plastiche e metalli, mescolati a elementi naturali, il suo lavoro desidera dare forma al «senso di responsabilità e di impotenza» che contraddistinguono la nostra epoca, esplorando la materia affinché veicoli questi sentimenti e possa raccontarsi. Nelle sue opere c’è, quindi, la costante ricerca di equilibrio tra tendenze antinomiche: fragilità e solidità, armonia e frattura, fissando e congelando un momento. Calcare il mondo in sette parti, sebbene appaia come una serie di sezioni della Luna, è un calco in cemento del pianeta, che non abbandona quell’attenzione al “come” e al “perché” sia stato creato, avendo cura di non produrre elementi di risulta: per realizzare il cemento viene utilizzata la sabbia, scavata nei fondali marini; pertanto, per costruire, si svuota e si erode il Pianeta, che diviene una sorta di scatola, di contenitore vuoto. Titolo sospeso (radicanti), è costituita da sottili ‘pilastri’ tubolari di foglie di platano (da lei definiti come meccanismo di “nostalgia preventiva”), galvanizzate in rame, montate su tubi di metallo industriali, degli impossibili sostegni del soffitto.

Da sempre preoccupata dal tema della sovraproduzione nonché delle conseguenze dell’Antropocene, è alla continua ricerca dell’essenziale (da non confondere col minimalismo), ancor più perché il fare artistico, fisiologicamente, genera oggetti. Dunque, è una condizione, un’attitudine, quella di avere attenzione e sensibilità ecocompatibili, cui le è impossibile sottrarsi. Propensione unita a quei sentimenti di responsabilità e di impotenza nei confronti dell’ambiente (non a caso la sua tesi era incentrata sul tema del nucleare al cinema) che definiscono ogni suo lavoro. Opere che sono “dialoghi sospesi”, che si nutrono degli eventi, degli incontri, che attraversano la sua quotidianità e si esauriscono quando trovano una completa rappresentazione formale, dopo un approfondito studio sulle possibilità del materiale col quale sono create, cercando di rendere evidente quello che c’è sopra e sotto l’orizzonte.

Sotto il titolo Autoproduzione ha raccolto tutti i resti delle sculture realizzate ponendo all’interno di essi un diario scritto nel 2018, una sorta di «economia interna dello studio, e di rapporto di memoria degli oggetti»: sono le immagini di alcuni gioielli di famiglia portati al Monte dei Pegni e che si accompagnano al disegno dell’opera definitiva. Al contempo, un altro diario registra il percorso inverso, annotando l’opera che le ha permesso di recuperare quel determinato gioiello. Attualmente, oltre a dedicarsi al disegno, è impegnata nella realizzazione di Autoritratto per il quale ha utilizzato ed esaurito tutti gli scarti di altri lavori, nonché nella realizzazione di sculture in ferro di serpenti, che traggono ispirazione dall’iconografia di San Giorgio e il drago.

Un lavoro fortemente personale e intimo, tradotto con una pratica profondamente concettuale che, al primo contatto, lascia, come sistema di decodificazione, quello strettamente estetico e che non consente l’accesso al generale sentire di Lulù Nuti. Tuttavia, l’impiego di tecniche tradizionali, il suo approccio fisico con esse, in una sorta di corpo a corpo, fa emergere tutta la forza e la potenza del gesto/azione. Un gesto a cui consegnare il suo “potenziale irreversibile” e che sottintende anche il rapporto col tempo, con la sua elasticità: «facciamo lievitare il tempo», usando un’espressione utilizzata dal padre. La connaturata sensibilità ambientale la pone pienamente nell’attuale dibattito sulla responsabilità dell’artista all’interno della società, su come il suo agire possa attivare riflessioni e consapevolezza nella collettività, realizzando opere che possano far emergere le potenzialità dei materiali e che l’uso comune non fa emergere.

foto Eleonora Cerri Pecorella
foto Eleonora Cerri Pecorella