Un confronto intergenerazionale sulla critica d’arte. Tra nostalgia innocua di un’epoca mai vissuta e prospettive future difficilmente direzionabili

Nella tela Au rendez-vous des amis del 1922, Max Ernst registra il vivace fermento culturale che accompagna la teorizzazione del movimento surrealista. Attraverso gli artisti e intellettuali rappresentati emergono l’urgenza e la centralità di un dialogo trasversale e perpetuo che, a livello storiografico, risulta come una vera ‘presa di posizione’ a cui votarsi. Nell’opera dell’artista tedesco assistiamo alla creazione di un vero e proprio sistema valoriale dove circola quella conoscenza che verrà poi teorizzata per essere diffusa all’esterno.

Con la nostalgia tipica di chi non ha mai veramente vissuto un’epoca, spesso le nuove generazioni immaginano questi grandi movimenti avanguardisti del passato, e i critici ante litteram, come immersi in uno stimolante processo dialogico che produce sistemi teorici. Allo stesso modo, si pensa alla critica militante come a una possibilità di riflessione artistica fiorita in un momento in cui chiara e tangibile era la forza dei processi genuinamente culturali, e possibile era l’idea di sistematizzare un pensiero lontano dal potere e in aperta contrapposizione alla legge sterile del mercato.

A distanza di circa sessant’anni dall’opera di Ernst, in coordinate geografiche e in un clima culturale completamente diversi, viene realizzato La costellazione del Leone (La Scuola di Roma) del 1980-1981di Carlo Maria Mariani, un altro segno tangibile del legame tra artisti e teorici in relazione ad alcuni temi nodali in cui è fondamentale il riconoscimento reciproco e forse, ancor più, quello del proprio ruolo[1].

La differenza più lampante tra i due dipinti risiede nel fatto che, all’epoca della realizzazione del secondo, il dibattito si stava gradualmente ampliando al mercato, come testimonia la presenza di mercanti e galleristi influenti (come Gian Enzo Sperone, che esporrà proprio quest’opera in una mostra personale dell’artista) nel Parnasoraffaellesco. È effettivamente in quegli anni che nel sistema artistico il mercato inizia a occupare una posizione primaria, fino ad allora mai raggiunta.

Oggi risulta evidente come l’arte visiva abbia allineato le proprie logiche produttive a quelle degli altri settori dello spettacolo, e come vengano messe conseguentemente in campo dinamiche di consumo simili, con una relativa velocizzazione degli step di carriera, con un impatto estremamente forte sulle nuove generazioni. Il fenomeno conduce alla necessità di diffondere a ritmi serrati il proprio lavoro, quasi esclusivamente ricorrendo al dispositivo ‘mostra’, così come a un’accelerazione esponenziale dell’interesse per diverse microtematiche, non sempre nate da riflessioni maturate tra artisti o teorici, piuttosto rispondenti a esigenze puramente commerciali.

Dunque, la critica pare oggi non solo funzionale al potere, ma anche subordinata al successo personale, perdendo il suo ruolo originario di costruzione (traduzione e diffusione) di un discorso puro intorno all’arte. Gli apparati testuali diventano così elemento di contorno, senza che scaturiscano da uno scambio dinamico, e la critica risulta appendice del processo di definizione di mostra, con un peso specifico ben diverso rispetto al passato.

Dagli anni Novanta in poi il disgregarsi dei grandi movimenti teorici e l’affermazione dell’individualità in campo artistico hanno portato a un totale ripensamento del sistema valoriale così come alla messa in discussione di quello artistico; processo accompagnato dal cambio di statuto e dall’iperspecializzazione di alcune figure.

Non a caso negli ‘anni d’oro’ della critica militante, l’esercizio della curatela e quello della critica erano spesso sovrapponibili, senza che vi fosse una netta divisione tra le discipline. Curatore e critico, invece, sono oggi due professionalità distinte e autonome, in più assistiamo alla massiva diffusione di nuove pratiche curatoriali, che non necessariamente contemplano un lungo scambio critico. Questo processo di graduale allontanamento è ben testimoniato dal fatto che esistono scuole e corsi di formazione specifici per curatori, ma non per aspiranti critici, e che lo studio teorico sia, nella maggior parte dei casi, relegato a una prospettiva storica e mai di sviluppo futuro. Da ciò deriva una grande lacuna formativa che non permette alle nuove generazioni di poter attingere da metodologie e strumenti inediti per la lettura e reinterpretazione critica dei fenomeni contemporanei.

Se la critica ha, man mano, abbandonato il circuito formale dello spazio espositivo e quello della formazione, è pur vero che, con il passare degli anni, è venuta meno anche la consuetudine di frequentare spazi informali dove dibattere d’arte: in passato anche questi catalizzatori avevano un peso (pensiamo, sempre facendo riferimento a un’opera, a Il Caffè Greco di Guttuso, 1976) e facilitavano l’incontro e lo scambio proattivo. Questa dimensione non fa che alimentare l’immaginario di un passato artistico caratterizzato dalla totale permeabilità del mondo nei confronti dei processi culturali e creativi, che, oggi, sembrano piuttosto relegati in una sfera totalmente estranea alla vita quotidiana.

Se gli spazi di confronto vengono meno, risulta fisiologico approcciarsi con dolce malinconia alla stagione della critica militante, immaginandola come qualcosa di irrimediabilmente perduto, come una discussione attiva tra ‘compagni di strada’ teorizzata e poi diffusa da un capofila o un portavoce carismatico. Si tratta di una militanza che trova effettivamente la sua massima romanticizzazione in Italia con figure come Germano Celant e Achille Bonito Oliva, ed è valida ancora per qualche successiva decade, fino al deperimento evidente dei giorni nostri.

Avendo riconosciuto la centralità del dibattito pubblico, del dialogo tra artisti e assodato come il mercato e la velocità con cui avvengono i cambiamenti sistemici abbiano spostato gli equilibri dirottando il ruolo della critica, possiamo senza dubbio affermare che l’elemento generazionale e militante di quest’ultima può sopravvivere proprio a partire dagli organismi e dagli spazi che agiscono al di fuori dalle logiche di subordinazione.

In un clima di disaffezione verso l’esercizio critico da parte dei giovani teorici, ma ancora di più da parte dei giovani artisti, è necessario chiedersi se le nuove generazioni siano alla ricerca di un confronto attivo, ma ancora di più se esistano correnti di pensiero condivise che possano essere intercettate e teorizzate.

È, infatti, impensabile affrontare un discorso sulla militanza senza tenerne in considerazione il cuore, ossia gli artisti e le loro opere, tanto più che sono proprio loro che potrebbero riaffermare il ruolo della critica, ribadendone l’importanza.

Una speranza per la concezione e diffusione di nuove metodologie critiche risiede proprio negli artist-run space o artist-run magazine diffusi e attivi sul territorio nazionale, ossia in quelle costituzioni formali o informali dove gli artisti lavorano insieme, confrontandosi su diverse tematiche di rilevanza contemporanea e intessendo reti di relazioni in grado di intercettare le diverse personalità che vi gravitano intorno.

Spesso in questi luoghi si producono, tuttavia, considerazioni che si esauriscono nelle scelte espositive, che non hanno la forza di essere ‘messe a sistema’. Ciò può dipendere da tanti e diversi fattori, in primis dalla mancanza di strumenti, sia teorici che economici. Ecco perché, sempre di più, si assiste a un’intensificazione del lavoro di documentazione e di archiviazione, in una graduale sostituzione degli apparati critico-testuali organici.

Nonostante queste premesse, gli scambi che avvengono anche in modo informale tra le nuove generazioni di artisti e teorici possono avere la potenzialità di produrre nuovi rituali e metodologie critiche, in grado di ‘settare’ nuovi stili.

Gli spazi di aggregazione fisici, immateriali o fruibili in modalità ibride potrebbero insomma essere un nuovo punto di incontro, rispondendo alla necessità di avere dei luoghi di aggregazione e discussione attiva e disinteressata, indipendente cioè da logiche economiche.

Tali processi possono inoltre essere coadiuvati da metodologie formative alternative, pensate per allenare l’attitudine critica, che dovrebbero tuttavia essere valorizzate anche dalle accademie, al fine di mettere in moto un meccanismo di nuova affezione verso la critica.

L’attenzione a ciò che sta accadendoqui e ora’ con un approccio ‘dal basso’, per definizione difficilmente direzionabile, potrebbe essere l’unica speranza per guardare al futuro, senza essere ancorati a logiche che non appartengono più al nostro presente, nonostante sia molto più rassicurante fare riferimento a stagioni dell’arte ormai storicizzate e quindi innocue. Da questo processo non possono astenersi le istituzioni, che dovrebbero mantenersi vigili nel captare e agevolare nuove sistematizzazioni, prestando attenzione a questi inediti scenari.

Non secondario risulta anche capire quali possano essere i linguaggi di supporto: se da un lato è necessario immaginare una metodologia per organizzare il fermento dal basso, è anche necessario allargare il dibattito fuori dal contesto degli addetti ai lavori, ribadendone la potenzialità culturale. C’è dunque da chiedersi se i nuovi spazi della critica possano essere anche quelli digitali, visto il clima di generale abbandono della carta stampata. Questa ipotesi potrebbe tuttavia risultare di difficile attuazione o quantomeno complessa, proprio per le considerazioni fatte in precedenza, dato che i social stessi sono immersi nelle più feroci logiche di mercato.

In ogni caso vi è da ribadire chiaramente il bisogno di autonomia e libertà dell’esercizio critico, la necessità che questo non venga piegato da altre logiche, pur con la consapevolezza delle lacune istituzionali in tutta la filiera, a partire dalla formazione fino ad arrivare alla musealizzazione, e tenendo sempre in considerazione le controproposteindipendenti o quantomeno lontane da tutte quelle dinamiche che allontanano l’attitudine critica.


[1] «Una raffigurazione allegorica delle figure del mondo dell’arte contemporanea a Roma. […] Twombly è raffigurato a cavallo, mentre regge lo stendardo con la scritta S.P.Q.R.; Sandro Chia ha in mano una tela, mentre Francesco Clemente fissa lo sguardo al di sopra della sua spalla; Luigi Ontani, un performer, è Ganimede sollevato in aria» da: B. Adams, Gas metafisico: la transavanguardia a New York, in Il confine evanescente. Arte italiana 1960-2010, a cura di G. Guercio e A. Mattirolo, Milano, Electa, 2010, p. 12.