Storia di una schizofrenia. Dal critico al curatore: una specie in via di trasformazione

«The art critic is an endangered species»[1]
Hal Foster

Negli ultimi anni, in contesti molto diversi, si è a lungo discusso, talvolta animatamente, della marginalizzazione del ruolo della critica d’arte. Il problema è molto concreto e si può persino azzardare l’ipotesi che nessuno, nella società attuale, possa affermare indiscutibilmente di svolgere a tempo pieno questa attività, dato che i giornali e le riviste hanno quasi del tutto smesso di interpellare (e di pagare adeguatamente) persone specializzate nel commentare in modo appropriato mostre ed eventi. Dunque – almeno seguendo un parametro meramente economico – è difficile dimostrare che il proprio lavoro sia prioritariamente quello di critico d’arte. Anche una delle funzioni caratteristiche della professione, quella di interpretare e problematizzare l’arte, sta venendo meno: un semplice esercizio di confronto tra comunicati stampa emessi da gallerie e musei e recensioni/informazioni pubblicate dimostra una sostanziale assenza di rielaborazione e di approfondimento nei testi che quotidianamente vengono proposti.

Il problema della scomparsa di tale ruolo se lo è posto anche Hal Foster in Art Agonistes, in cui si chiedeva le ragioni per cui la figura del critico d’arte, così importante nel dibattito artistico fino a pochi decenni prima, avesse perso la sua centralità. Le sue considerazioni ci portano ad affermare che se ci si vuole occupare di arte contemporanea, anche solo per questioni di sopravvivenza, è necessario gravitare sempre più in ambito accademico, condizione che in Italia implica l’attenersi al ruolo di storico dell’arte. Oppure – nel caso in cui si abbia a disposizione un’offerta decisamente più ampia – venire coinvolti in una serie di lavori relativi al mercato dell’arte in maniera diretta, lavorando per collezionisti, gallerie, case d’asta, o almeno parzialmente indiretta, cimentandosi con la curatela ma trascurando totalmente proprio la possibilità di esercitare una qualsiasi forma di critica. Non si può d’altra parte ignorare che l’apparente ‘povertà’ della critica attuale sia in parte frutto di un cambiamento della nostra società, in primis legato alla velocità di consumo degli eventi e al numero degli appuntamenti, aumentati esponenzialmente. Nella maggioranza dei casi poi, molte delle comunicazioni propagate sui canali social risentono dell’umoralità di chi scrive (o risponde) ai messaggi senza prendersi il tempo necessario per osservare, rielaborare o approfondire. Sembrerebbe dunque che, per ricorrere nuovamente alle parole di Hal Foster, «If farce follows tragedy, what follows farce? Along with a modicum of clarity has come a lot of bullshit»[2].

Forse è davvero esistita un’età dell’oro, un momento in cui la critica d’arte aveva un ruolo indiscutibilmente importante, svolto al fine di alzare il livello del dibattito e della coscienza di artisti e fruitori. Tuttavia, sono da sempre incline a dubitare dell’esistenza di una tale età per ogni genere di fenomeno. Vorrei, dunque, provare a ribaltare il nostro punto di vista e ragionare partendo da un’apparentemente semplice questione: abbiamo davvero bisogno della critica d’arte, almeno nei termini in cui ci viene storicamente tramandata?

L’importanza della critica è cresciuta nel tempo grazie anche allo storico distacco dell’arte dalla sua funzione mimetica. Nel momento in cui gli artisti hanno smesso di rappresentare la realtà imitando le sue forme esteriori, il ruolo di mediazione e di approfondimento svolto dalla critica mediante l’analisi delle simbologie letterarie e filosofiche, oltre che stilistiche, si è sostanzialmente allargato anche allo studio degli aspetti psicologici o sociali relativi all’opera d’arte. Questa fase ‘modernista’ ha poi avuto successive e ulteriori evoluzioni e gli artisti, senza abbandonare del tutto tali presupposti, hanno sicuramente percorso altre strade. Tutta la storia dell’arte del Novecento è, infatti, anche una storia delle mostre che l’hanno proposta e sviluppata. In molti casi gli artisti hanno progettato i loro interventi non solo in termini materiali ma anche di occupazione dello spazio, sia attraverso installazioni site-specific, sia mediante mostre vere e proprie. In un certo senso hanno messo in pratica ciò che John Dewey aveva teorizzato in Art as Experience[3], l’idea cioè che l’arte corrisponda a uno strumento per arricchire e rigenerare la nostra vita quotidiana, e che in virtù di queste caratteristiche sia anche foriera di dinamiche esperienziali che interagiscono con la realtà sociale che la alimenta. Partendo da Schwitters o, se si cambia prospettiva, dalle serate futuriste, passando per vari generi di installazione e performance, e arrivando fino ai più recenti Olafur Eliasson e Damien Hirst, abbiamo assistito al sempre più evidente utilizzo da parte degli artisti del medium mostra/evento (e delle connesse dinamiche esperienziali cui si alludeva), circostanza che ha modificato il nostro modo di fruire l’arte che, a sua volta, ne è stata influenzata.

Tale mutamento di obiettivi, riorientando l’attenzione sulla mostra, rende più facile comprendere le ragioni per cui (anche nell’immaginario dei più giovani) alla figura distante del critico, osservatore/commentatore, si sia sostituito il più attivo e partecipante curatore. E la storia delle mostre ci aiuta anche a capire i motivi per cui tale figura ora coagula in sé anche strategie e tecniche di realizzazione dell’opera che gli artisti hanno, a mano a mano, introdotto all’interno delle proprie competenze[4]. Il fantasma di Marcel Duchamp ci appare in tutta la sua vivezza[5], dato che la ‘normale divisione’ tra artista, produttore e curatore che seleziona le opere non risulta più così chiara e definita. E non solo perché il ready made è prodotto da una ‘scelta’, configurandosi come un oggetto non realizzato dall’artista, ma soprattutto perché tra le sue «apparentemente marginali attività»[6] l’artista francese ha ricoperto più volte (anche se in modi diversi) il ruolo di ‘curatore’, un ruolo attraverso il quale ha approfondito la sua critica al sistema dei valori artistici attribuendo una sempre maggiore importanza al ruolo del pubblico (anche) nell’interpretazione dell’opera. L’Exposition internationale du surréalisme, allestita alla Galerie Beaux-Artsdi Parigi nel 1938, che lo vedeva come «générateur-arbitre»[7], è solo il più eclatante tra i possibili esempi.

Se per la sua attenzione al contesto il curatore diventa anche una figura più ‘coerente’ rispetto all’oggetto (ormai diventato anche progetto, azione ecc.) della sua indagine, l’arte di pari passo assume sempre più spesso un valore a partire dalla relazione con il suo contesto. Ed è bene sottolineare che tale cambio non implica necessariamente che essa perda la possibilità di approcciarsi criticamente alla realtà, certamente però propone uno scarto, uno slittamento che sposta il curatore (al contrario del critico) tra gli osservatori partecipanti, con tutto ciò che ne consegue. Tale mutamento di ruolo induce, almeno a livello teorico, il curatore ad allontanarsi in modo netto dalla pretesa, sempre più fallimentare, di potersi situare all’esterno delle cose e dei processi, ad abbandonare quello sguardo ‘neutrale’ che esperienze come quella femminista o anticolonialista hanno dimostrato essere tutt’altro che neutrali.

Per contro, non si può comunque negare che il curatore, dalla genesi del suo ruolo (che possiamo grosso modo far risalire alle grandi mostre della fine degli anni Sessanta), ha accumulato un potere sempre più ampio, che esercita includendo ed escludendo gli artisti da mostre e collezioni importanti, o anche (circostanza a volte ancor più pericolosa) imponendo una decodifica, del singolo autore o della singola opera, asservita alle tematiche proposte nelle esposizioni. In troppe occasioni la lettura dei lavori è stata schiacciata dal contesto collettivo e dal potere immersivo della mostra, portando in alcuni casi a un annullamento degli elementi più peculiari e sovversivi proposti dai singoli artisti. Il passaggio da critico a curatore non ha, dunque, risolto i problemi connessi alla necessità di approfondire le complessità in gioco; tutt’altro. Forse l’atteggiamento auspicabile, quantomeno a livello teorico, potrebbe essere quello invocato da Bruno Latour: «The critic is not the one who debunks, but the one who assembles. The critic is not the one who lifts the rugs from under the feet of the naïve believers, but the one who offers the participants arenas in which to gather. The critic is not the one who alternates haphazardly between antifetishism and positivism like the drunk iconoclast drawn by Goya, but the one for whom, if something is constructed, then it means it is fragile and thus in great need of care and caution»[8].

Nonostante l’apprezzabile riconoscimento della necessità di «care and caution», lo strapotere delle letture curatoriali adottate dai grandi musei o dalle biennali continua a porsi in contrasto con la fragilità dei possibili significati e ci fa sicuramente rimpiangere l’esistenza di una critica esterna alle dinamiche espositive. Tuttavia, altri elementi, figli di un pensiero decoloniale e di un’arte socialmente impegnata, sembrano emergere da alcune recenti sperimentazioni, come per esempio l’ultima e controversa edizione di documenta curata da ruangrupa, che materializza una modalità di superamento del tradizionale confronto tra critica e curatela e uno sviluppo orizzontale e democratico del processo artistico, dove sia al binomio autore-spettatore che a quello di critico-curatore si preferisce il ruolo del partecipante attivo. Ma è ancora presto per fare bilanci su questo ulteriore sviluppo[9].


[1] H. Foster, Art Agonistes, «New Left Review», VIII, 2001. Ripubblicato (con revisioni) con il titolo Art Critics in Extremis in: H. Foster, Design and Crime (And the Diatribes), London-New York, Verso Books, 2002, pp. 104 and ff.; tr. it. Design & Crime, Milano, postmedia books, 2003.
[2] Id., What Comes After Farce?,London-New York,Verso Books, 2020.
[3] J. Dewey, Art as Experience, New York, Capricorn Books, 1934.
[4] B. Groys, Multiple Authorship in The Manifesta Decade, a cura di B. Vanderlinden ed E. Filipovic, Cambridge (MA), MIT Press, 2005.
[5] A questo riguardo, all’interno di una letteratura molto vasta, suggerisco le analisi pubblicate nel volume miscellaneo: The Dada Seminars, a cura di L. Dickerman e M.S. Witkovsky, Washington, National Gallery of Art, 2005. In particolare, il saggio di H. Molesworth, intitolato Rrose Selavy Goes Shopping.
[6] E. Filipovic, The Apparently Marginal Activities of Marcel Duchamp, Cambridge (MA), MIT Press, 2016.
[7] Così veniva identificato il lavoro dell’artista francese nell’affiche dell’esposizione.
[8] B. Latour, Why Has Critique Run Out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, «Critical Inquiry», II, 2004, p. 246. Vedi anche il commento di Hal Foster, Post-Critical? in Bad New Days: Art, Criticism, Emergency, London-New York, Verso Books, 2015, pp. 115-124; tr. it. Bad New Days: arte, critica, emergenza, Milano, postmedia books, 2019.
[9] Su questi argomenti rimanderei ai testi di: G.H. Kester, The One and the Many. Contemporary Collaborative Art in a Global Context, Durham-London, Duke University Press, 2011 (nonché ai testi presenti sulla rivista «Field» da lui fondata) o a quello di G. Sholette, The Art of Activism and the Activism of Art, London, Lund Humphries, 2022, tr. it. L’arte dell’attivismo e l’attivismo dell’arte, Milano, postmedia books, 2023.