Silvia Mantellini Faieta

Pescara 1992
Vive e lavora a Pescara
Studio visit di Angel Moya Garcia
12 ottobre 2023

Le motivazioni per tornare a visitare lo studio di Silvia Mantellini Faieta sono molteplici. Nel primo studio realizzato da Marco Trulli emergeva un lavoro empatico, relazionale e condiviso, organizzato attraverso indagini emotive che connettevano luoghi e persone. Allo stesso tempo spiccava come l’artista pescarese affrontasse pratiche in cui affiorava un particolare interesse verso le collettività marginali, gli espulsi, gli antieroi, i fragili e gli abbandonati nelle periferie sociali ed economiche delle nostre città. Volevo approfondire il suo lavoro, l’estetica fragile, la tipologia di relazione che instaura con queste persone, quanto queste dinamiche partecipative possano essere incisive in un determinato territorio o quanto rimangano circoscritte all’intenzionalità della regia.

Come veniva accennato nel primo studio visit, i riferimenti che collegano la sua produzione a quella italiana e internazionale si trovano negli spunti metodologici, formali e processuali prelevati da una certa produzione cinematografica emergente italiana concentrata sul reale e, in particolare, su comunità di persone. Spostandosi consapevolmente dall’arte relazionale e dalla finzione di certa arte performativa attuale per avvicinarci a un approccio più diretto con la realtà, di matrice pasoliniana, la sua ricerca si collega al Teatro do Oprimido di Augusto Boal, che usa le parole e le immagini come strumenti per il cambiamento sociale a livello individuale, locale e globale con l’obiettivo di instaurare una forma di educazione popolare basata sulla comunità. Possiamo trovare delle corrispondenze in ambito nazionale nel lavoro di Elena Mazzi o Filippo Berta, che lavorano con delle collettività; tuttavia, nel lavoro performativo di Mantellini, il rapporto è sempre dialogico, forse meno gerarchico e, soprattutto, nella maggior parte dei casi la formalizzazione viene presentata attraverso il video come linguaggio in cui l’artista sente una maggiore sicurezza e potenzialità.

La ricerca sullo sguardo empatico di Lévinas, il mondo onirico come base psicologica e come supporto per decodificare la realtà e certi comportamenti, le ricerche antropologiche sull’abitare autogestito, quelle sociali sui diritti della casa, così come un lavoro che parte dal personale per volgersi all’universale, compongono un immaginario molto vasto, declinato in dispositivi fluidi e orizzontali, che tentano di intercettare ciò che accade nella realtà.

La visita a una città fantasma come Abades nelle isole Canarie, costruita come lebbrosario da Francisco Franco, poi base militare e ora proprietà privata in cui spesso vengono realizzati dei rave, l’ha portata a realizzare la serie filmica Small Fish, Dog Fish, che analizza i modi illegali di vivere e i rituali di aggregazione. In questo lavoro attraversa luoghi deserti e feste, rapporti famigliari e ricordi quasi irreali evocati nella parte audio da dialoghi in presa diretta tra l’artista e suo fratello, musica techno, sirene della polizia e i suoni del vento e del mare. Recentemente ha realizzato una residenza in Finlandia in cui si è addentrata nel mondo onirico attraverso la realizzazione di tre video: Dreaming about the Northern Lights, Indigo e Shadow, in cui il limite tra realtà e sogno viene dissolto. Infine, la ricerca più attuale si concentra intorno alla storia di una famiglia con dipendenze affettive e da sostanze, in cui il linguaggio del corpo ─ ad esempio il movimento delle mani, di piedi scalzi o con scarpe particolari che muovono o calpestano oggetti, di bacini e zone lombari ─ insieme a pochissime parole, mostrano la condizione di bisogno e assenza d’amore presenti negli individui e nelle collettività marginali.

La quantità di tematiche affrontate risulta sicuramente difficile da sintetizzare, rischiando, di conseguenza, di non trovare punti chiari di contatto. Allo stesso tempo, accettando la funzione sociale dell’arte e la responsabilità dell’artista nell’educare lo sguardo collettivo, si rischia di autolegittimare una visione e una percezione della realtà che non necessariamente deve essere condivisa.

Riscontriamo, tuttavia, come proprio nel montaggio dei video, girati spesso con il proprio cellulare, l’artista riesca a inserire una serie di elementi come sottotitoli, voci fuori campo, persone che incontra in presa diretta, citazioni, riferimenti e intrecci narrativi, collegando quelle urgenze attraverso un linguaggio estremamente versatile. In questo senso, emerge come nello sviluppo della sua ricerca ci sia una consapevolezza sempre più matura delle proprie competenze, dei propri limiti, così come delle potenzialità emotive per addentrarsi e indagare le parti ancora inesplorate del cinema poetico, intimista e del documentario, dove unisce la sua esperienza di vita con tutto ciò che le è intorno e che riesce e vuole registrare.