Sebastiano Dammone Sessa

Montreux (Svizzera) 1981
Vive e lavora a Catanzaro e a L’Aquila
Studio visit di Marcello Francolini

Seguendo l’istmo di Catanzaro, ricordo un vecchio opuscolo di Alitalia che la presentava attraverso una citazione di Ulisse che rimarcava come, da quel punto, si potessero vedere le Eolie e talvolta anche il Vesuvio. Mi dirigo allo studio di Sebastiano Dammone Sessa, una vita a metà tra la ricerca e la didattica, tra l’Aquila e questa Città dei tre colli. Penso che in fondo Sessa, passi semplicemente da un’altura a un’altra, perciò i suoi sguardi saranno condizionati, come i suoi paesaggi, dall’assenza totale di forme modellate dalla gravità. Spazi liminari diurni e notturni, non vincolati da nessuna umana architettura, corrono a gran velocità quasi immobile, dinnanzi alla spazializzazione grandangolare degli orizzonti. Qui non è possibile trattenere alcunché, e Sessa non fa azione di prelievo dal-flusso, ma preleva il-flusso, in modo tale da riportarci in quelle coordinate geografiche a rimirare come lui rimira, e da lì muovere la nostra mente, come lui la muove, ma ognuno, a questo punto, a suo modo. Nella serie Tracce (2018-2022), la trama di un disegno non disegnato, è ottenuta per impressione diretta di un agente su un agito, emulsioni e chiodi su basi di carta neutra. Lo spazio della tela assume così le sembianze di un laboratorio sperimentale per la riproduzione di campi di forza meteorologica. Ogni opera è una costante rielaborazione di possibili modelli di innesco tra le vibrazioni luminose ad alta quota. Per di più, qui i margini contano e inspessiscono la superficie quasi staccandola concettualmente dalla parete, per divenire display, ovvero un dispositivo attivabile dalla movimentazione della mente dell’osservatore. Una sorta di multimedialità non multimediale, ovvero non servita, ma ricercata con sforzo. Uno sforzo mnemonico. Lo stesso sforzo che rientra in un filone parallelo di ricerca, quello degli Appunti (2016). Qui l’aguzzare e il plasmare come modi dell’appuntare, sono tentativi per riorientare lo spazio circostante, attraverso una misurabilità geometrica originaria. Quasi per trasposizione di intenti, potremmo parlare di queste opere come similmente diremmo dei solidi platonici, ma più che dal punto di vista formale, da quello del significato intrinseco. Platone, infatti, rintracciava nei solidi la razionalità nascosta della realtà, attribuendo una funzione da intermediari tra l’iperuranio e la mutevolezza dei fenomeni naturali. L’installazione delle opere su parete dimostra un’astrazione ulteriore, derivata da una scelta concettuale, l’intenzione di sospendere nell’aria particelle di materia, che, come nodi di una rete, permettono la creazione di spazi metafisici, resi visibili sul piano fisico, attraverso l’ombra riflessa. Di certo una ricerca pacata che ritrova la meticolosità di un lavorio che rientra nei margini propri di una pittura e di una scultura metafisiche, nel tentativo di ancorare la fluidità liquida del presente a quelle forme archetipali e a quei processi originari come il vedere-sopra-gli-orizzonti. La sua ricerca appare così muoversi entro una resistenza di realità non filtrata da una mediazione tecno-scientifica, del processo di scoperta della percezione. Una resistenza tipica e sintomatica di una generazione operante negli anni Dieci del XXI secolo e che, provenendo dai Novanta, percepisce la virtualità come un processo di dis-velamento mentale e autonomo verso il mondo, e non direttamente mediato dalla vicinanza del dispositivo tecnologico.