Marco Emmanuele

Catania 1986
Vive a lavora a Roma
Studio visit di Nicolas Martino
27 ottobre 2023

Marco Emmanuele ha studiato Ingegneria e Architettura, prima a Catania e poi a Roma. Nella capitale ha deciso di dedicarsi all’attività artistica, iniziando a lavorare in quella fucina che è stata Opera Paese (spazio animato da Pietro Fortuna a Pietralata) e che oggi, con il nome di Paese Fortuna, è il punto di incontro di cinque giovani talenti (Josè Angelino, Alessandro Dandini de Sylva, Luca Grechi, Diego Miguel Mirabella e appunto Emmanuele) e uno degli spazi indipendenti più interessanti della scena romana. Una factory, in effetti, nella quale gli artisti non condividono solo lo spazio, ma un’idea di organizzazione e produzione culturale (di sfuggita annotiamo che qui hanno sede le raffinate edizioni Aniene). Emmanuele ha al suo attivo diverse mostre collettive e personali, e tra queste si segnala almeno quella intitolata Un raggio verde tenuta da Operativa Arte Contemporanea nel 2021, con un testo di Giuseppe Armogida.

La produzione più recente dell’artista consiste in una serie di tele e sagomati in legno – site specific ‒ dove prendono vita ‘paesaggi’ realizzati con la polvere di vetro. Un materiale ottenuto artigianalmente macinando i residui che si possono trovare sulle spiagge. Le tele hanno tutte lo stesso titolo ‘fotografico’, ISO, seguito da un numero progressivo. Si tratta di lavori di grande suggestione poetica che si sono fatti progressivamente sempre più astratti – nella fase iniziale alcune tracce umane erano ancora presenti – e che rimandano da un lato all’esplorazione delle possibilità artistiche contenute nei materiali più inusuali e di scarto (più esattamente si tratta del recupero di sostanze e tecniche già in uso nel Rinascimento e poi man mano dimenticate), e dall’altro all’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente e dell’impatto che il primo determina sul secondo. C’è quindi una dimensione artigianale del lavoro di Emmanuele – il tempo lento e la cura che la preparazione del materiale necessariamente richiede – che è senz’altro una delle cifre più affascinanti e originali di questo artista che così sembra proporre una sorta di resistenza quotidiana a quella sindrome della fretta della quale la società digitale ci rende prigionieri. Scolpire, macinare, levigare, qui coincidono con il tentativo di forzare le maglie troppo strette di un tempo che fugge per ‘cristallizzare’ una dimensione duratura nella quale poter vivere e non solo sopravvivere.

Dal punto di vista concettuale la poetica sviluppa una relazione con la memoria che fa pensare a qualcosa di simile a quello che diceva Gianni Vattimo rispetto alla relazione che ci lega al nostro patrimonio culturale, sia a livello collettivo che personale: nell’epoca secolarizzata nella quale ci è toccato di vivere, non possiamo fare altro che ‘rammemorare’ ciò che è stato, dentro un legame con il passato dal quale non potremo guarire mai del tutto, così come non si guarisce mai veramente da una malattia che quando ci attraversa lascia per sempre delle tracce sul nostro corpo. Ecco, noi siamo allora la lenta stratificazione di queste tracce, il nostro inconscio non è una superficie liscia e levigata, ma ruvida e irregolare – come la superficie di questi lavori ‒, un’estensione che rimanda a Jorge Luis Borges quando diceva che noi siamo la nostra memoria, un mucchio di specchi rotti.

Da segnalare senz’altro, come una delle parti più interessanti del lavoro di Emmanuele, sono anche le Drawing Machines, macchinari, a volte di dimensioni ambientali, per realizzare opere collettive. Costruite per lo più in legno, o comunque con materiali tradizionali, queste macchine danno corpo a quella cosa che si chiama ‘intelligenza collettiva’ e di cui facciamo esperienza nel lavoro e nella vita di tutti i giorni (basti pensare alla rete e ai nostri devices). Qui è interessante notare una contraddizione in essere tra la ‘durezza’ industriale di questi macchinari moderni e la ‘morbidezza’ delle forme di vita digitali. Una contraddizione che non rimanda a una qualche forma di nostalgia, ma probabilmente a quella tensione irrisolta in cui sempre consiste la nostra condizione oscillante tra l’affezione per la sicurezza felice dell’infanzia e la dolorosa, e al tempo stesso straordinaria, avventura del diventare adulti. Sarebbe probabilmente interessante se Emmanuele, che su lavoro collettivo con le Drawing Machines ha organizzato e curato recentemente una bella mostra alla Fondazione Pastificio Cerere, insistesse ulteriormente per esplorarne meglio tutte le potenzialità ancora inespresse.

Foto di Flaminia Bulla