Istituzioni e prassi critica. Un orizzonte organico

Negli ultimi decenni alcuni fenomeni economici, sociali e culturali hanno messo in discussione il potere della critica, dall’‘interno’ e dall’‘esterno’. L’affermarsi della vulgata del postmoderno, da una parte, e il pensiero poststrutturalista dall’altra; il diffondersi, dagli anni Novanta, del paradigma antropologico, la svolta introdotta dalla trasversalità degli studi di cultura visuale, la ripresa degli orientamenti femministi e i dibattiti sulle questioni di genere, come il tema della deculturizzazione. Ogni opinione deve essere preceduta da una messa in discussione dei pregiudizi sistemici che lo determinano. Ogni giudizio critico rischia, altrimenti, di sembrare un atto di dominio e potere cieco.

D’altra parte, il neoliberismo globalizzato, che nell’economia della conoscenza (dall’università alle società private) ha ottenuto la terziarizzazione del lavoro e precariato, ha generato una iperproduzione di opportunità culturali rivolte a un pubblico di consumatori e turisti progressivamente più vasto, che rende oggettivamente sempre più difficile una critica libera, autonoma, indipendente e, quindi, non compromessa. In aggiunta a ciò, la ‘software society’ delle applicazioni digitali ha iniziato a profilare mondi alternativi, in modo che ogni individuo possa trovare immediatamente risposte confortevoli e identitarie ai propri interessi culturali, evitando processi di confronto con dimensioni differenti e alternative. Opinioni diffuse, ma proviamo a scendere nelle pratiche.

Sappiamo che la fruizione di un’opera d’arte (e l’acquisto è una forma speciale di fruizione) comporta il confronto con una ‘cornice’, come afferma Judith Butler in un suo breve ma intenso intervento: «La cornice è un oggetto fisico, a volte più vistoso, altre più sfuggente. Ma ─ perlomeno nei musei ─ l’opera d’arte è incorniciata non solo dal materiale solido che delimita l’immagine, ma anche dalla sala, dalla parete, dalla luce, dai ganci a cui è appesa […]. Ben sanno curatori e curatrici che il dipinto, la scultura, il disegno è incorniciato non solo dagli oggetti e dalle persone che lo circondano, ma anche dalle didascalie che lo ‘contestualizzano’ e lo ‘interpretano’ per chi osserva. Per non parlare dei processi di acquisizione artistica, degli aspetti economici e logistici sottesi al trasferimento dell’opera […]. Quindi si entra nel museo con l’auspicio di un’esperienza pura, la quale, come dicevo, si basa su accurati meccanismi di rimozione»[1].

Evitando questa azione di ‘rimozione’ e traslando, auspicheremmo che l’atto critico (testo, gesto, voce…) non avesse una cornice, invece la possiede e pare articolarsi in modo complesso ma concreto proprio all’interno del corpo delle istituzioni, pubbliche o private che siano. Si pone quindi la questione di come lo spazio critico alberghi nell’istituzione, e di come la critica come forma di potere (nel senso di egemonia gramsciana) possa affermarsi in esso secondo tipologie di pratiche apparentemente destinate a una scarsa visibilità, percepibili come ‘laterali’ ma in realtà, nel loro complesso, efficaci.

Con il diffondersi pervasivo delle mostre intese come appuntamento conoscitivo nel quale si possono enunciare nuovi paradigmi, manifestare pubblicamente i linguaggi del contemporaneo e dei suoi protagonisti tramite il coinvolgimento di luoghi storici, spazi museali e anche ‘non artistici’, il ruolo sempre più visibile del curatore appare cambiato; da figura indipendente, ‘compagno di strada’ degli artisti[2], è stato oggetto di un inquadramento formativo, effettuato mediante i primi corsi degli anni Novanta, che ha comportato la sua successiva contrattualizzazione all’interno delle istituzioni. I suoi compiti si allargano a seconda delle dimensioni e delle caratteristiche di queste ultime: non è più, quindi, un mero exhibition maker, ma un responsabile dell’educational program, di attività culturali nella dimensione virtuale e digitale, di conferenze di approfondimento, un direttore artistico, formatore, docente, attivatore di materiale negli archivi e così via. Il curatore, quindi, sempre più professionalizzato, si specializza attuando un complesso sistema di necessarie ‘mediazioni’.

Come suggerisce Nathalie Heinich: «Per riprendere due concetti di Pierre Bourdieu, l’importanza delle mediazioni cresce in modo direttamente proporzionale al grado di specializzazione e innovazione creativa o di ‘autonomizzazione’ del ‘campo artistico’. Può trattarsi di mediazioni verbali o scritte (recensioni, articoli, libri, tesi, contratti ecc.), ma anche di mediazioni iconiche (riproduzioni), professionali (critici, conservatori, divulgatori, galleristi o producer di opere), istituzionali (gallerie, musei, centri d’arte pubblici o privati ecc.) o materiali (pareti di musei, e gallerie, cartelli, piedistalli, cornici, cataloghi, archivi ecc.)»[3].

Queste mediazioni, ora individuate da un punto di vista sociologico, possono divenire nelle istituzioni delle ‘microforme’ di spazio critico. Immaginiamo attività quali: la libera discussione con un artista, le collaborazioni per una ricerca fondi, i confronti negli studio visit, l’organizzazione di mostre ufficiali, alternate ad altre più sperimentali; ancora, scrivere dei testi con spazi e autonomia differenziati, pianificare la divulgazione, leggere e proporre dei libri al pubblico, dialogare nel confronto dialettico con le strutture gerarchiche amministrative e politiche.

Interpretando in modo più radicale alcune di queste pratiche, sulla linea degli scritti di James Scott, potremmo inferire che esse costruiscono un discorso segreto, nascosto, alternativo al discorso pubblico e ufficiale, potenziali azioni di resistenza all’interno di microspazi di autonomia[4].

La microcritica, dall’interno, può produrre collegamenti e affioramenti inattesi. Nel loro concretizzarsi, gli incontri, le scelte, i corpi in relazione, le azioni, i dialoghi, le passioni, agitano il pregiudizio, la decisione miope, la cecità propagandistica, l’automatismo burocratico, a volte assonnato, il sistema meramente relazionale e lobbistico, così come il disinteresse e la delega che deresponsabilizza.

Come affermano Gilles Deleuze e Felix Guattari in Kafka. Per una letteratura minore[5], forse, esiste una ‘critica minore’ che agisce in queste forme, creando concatenamenti imprevedibili che, destrutturando l’organizzazione ufficiale, la rendono porosa e più aperta all’esercizio della sua influenza.

Questo articolarsi di pratiche, definibili ancora come curatoriali e di prossimità al sapere dell’arte contemporanea ma certamente più costruttive, esperienziali, relazionali, può essere sperimentato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, nell’ascolto della visita guidata sull’opera di Peng Zuqiang, oppure nell’allestimento di una mostra alla GAM di Torino, nel mediatore culturale della Biennale oppure nella passione del conservatore dei Musei Civici, che difende la sua autorevolezza in una scheda. Nell’articolo scritto da un curatore del Mart o nella ricerca di una dottoranda che lavora su una critica, donna, rimasta pressoché sconosciuta. Ancora, nella conferenza agli studenti in visita, nella mano tesa per aiutare l’artista che sperimenta le sue passioni, nella partnership per un bando ministeriale.

La microcritica accetta di non essere autoritaria, dominante, discriminante, ma agisce, sfrangiata, tra le maglie di un sistema complesso, politico, economico, gerarchico e amministrativo. Certo, la microcritica agisce efficacemente se il soggetto interno all’istituzione riesce a ritagliarsi uno spazio personale, anche al di fuori dei molteplici ruoli possibili, per l’esercizio libero e la crescita, la formazione e l’aggiornamento delle competenze.

Nel privato dei nostri interessi leggiamo del ‘metamorfico’ di Emanuele Coccia, del concetto di debito e consumo in David Graeber, della dysphoria mundi in Paul B. Preciado (ecco, leggetelo!), dello Chthulucene di Donna Haraway, degli aspetti di una formazione critica in bell hooks, dell’oceano di suono di David Toop e così via. Affrontiamo tutto quello che riteniamo un aggiornamento sul pensiero contemporaneo, ma tale sapere si articolerà, si innesterà viralmente nelle soggettività che somatizzano, muovono, spostano, agiscono, scelgono, rispondono, nei rivoli secondari delle attività del lavoro e dell’incarico a cui siamo chiamati.

Lo spazio ufficiale dell’istituzione è stimolato criticamente, per mano di questa attitudine curatoriale, a entrare in gioco, a mettersi a disposizione per pratiche che dall’organizzazione arrivano alla relazione, alla dimensione ‘in comune’ e che, quindi, non si limitano a discendere da un curatore inteso come deus ex machina: «Uber Curator (german word), who has the total control over exhibitions, product of system of power, fame, and cartels; the curatorial operation inevitably goes through a complex process of negotiation between different creative practices, institutions, stakeholders. This process opens up different possibilities for a new mode of knowledge production and dissemination […] This process cannot be claimed by a single author […] If the ownership shift to the visitors, the Uber Curator becomes vulnerable. In this sense, curatorial research can only be completed by visitors’ practice of commoning the curatorial operation»[6].

Una critica che pretende visibilità è pericolosa, una critica che ascolta è preziosa[7]. Per questo dobbiamo amare ogni istituzione come un organismo, per quello che dall’interno può essere o può diventare.


[1] J. Butler, Perdita e rigenerazione. Ambiente, arte, politica, Venezia, Marsilio, 2023, pp 25-27.
[2] «In 60s the curators were just friends of the artists, Compagni di strada, they accompanied the artists along the way, part of the making of art (very different was, for example, the figure of Clement Greember» C. Christov-Bakargiev in AA.VV, Reclaiming artistic research, a cura di Lucy Cotter, Berlin, Hatje Cantz, 2019.
[3] N. Heinrich, Il paradigma dell’arte contemporanea. Strutture di una rivoluzione artistica, Milano, Johan & Levi, 2022, p. 135.
[4] J.C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza. I «verbali segreti» dietro la storia ufficiale, Milano, Elèuthera, 2006.
[5] G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Macerata, Quodlibet, 2010.
[6] Je Yun Moon, Curatorial Research as the Practice of Commoning, in AA.VV., Institution as Praxis, edited by B. Balaskas. and C. Lito, London, Sternberg Press, 2020.
[7] P. Bickers, The Ends of Art Criticism, London, Lund Humphries Publishers Ltd, 2021.