Giulia Mangoni

Isola del Liri 1991
Vive e lavora a Isola del Liri
Studio visit di Marco Bassan
23 novembre 2023

La pittura di Giulia Mangoni oscilla tra l’essere un mezzo di espressione intimo e, allo stesso tempo, di indagine comunitaria di una cultura decentralizzata come quella della Ciociaria.
Lontana da una comunità urbana, assume su di sé il ruolo di far conoscere e trasformare le diverse ‘intelligenze’ del suo territorio quali l’artigianato, l’allevamento, l’agronomia, la storiografia, la ricerca antropologica. La ricerca di Mangoni intreccia questa sapienza arcaica con mitologie decentralizzate, feudali e post-industriali al fine di esplorare diverse nozioni di identità. Si definisce «un’anti-nomade che abbraccia la stabilizzazione delle radici come fondamento per la crescita e lo sviluppo, esaltandone l’importanza rispetto al concetto di sradicamento».

Nasce come pittrice guardando, durante l’infanzia, le opere della pittrice brasiliana Beatriz Milhazes e intrecciando il suo modernismo tropicale con la pittura pubblica e anonima sovietica studiata negli anni passati a New York. Questi due riferimenti hanno ribaltato la visione anglosassone acquisita durante gli anni di formazione a Londra, che l’avevano spinta a una ricerca puramente introspettiva e autoriferita, per lasciare spazio a una pratica di pittura sociale e comunitaria.

Affascinata dal sogno e dal fantastico, si ispira a un genere che definisce un intreccio tra post-surrealismo e realismo magico contemporaneo, attraverso il lavoro di artisti come Delphian Henneley, Jacopo Pagin, Naudline Cluvie Pierre, Henry Churchod e Maja Ruznic, ciascuno dei quali esplora in modo particolare il confine tra campo e figura.

Le dimensioni della tela utilizzate per i lavori pittorici rappresentano dei canoni con cui inquadra il suo lavoro: nelle opere più piccole la pittura è una sorta di meditazione sullo storytelling femminile, brevi romanzi che si concentrano su un’esperienza quotidiana e domestica. In questi formati, Mangoni non mira a raccontare storie epiche o a dipingere paesaggi grandiosi; al contrario, si dedica a studi intimi, che si sviluppano gradualmente nel tempo, ispirandosi a pittrici come Winifred Nicholson, la cui serie di dipinti degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta si focalizza su fiori e vasi con cui esprime una gamma emotiva e vitale sorprendente, nonostante la limitata profondità visiva.

Per i lavori di medie dimensioni si ispira, invece, alle finestre di Pierre Bonnard o ai lavori di Rosa Lay, rappresentando un contesto rurale ed ex-industriale, dove la donna è molto spesso narratrice e protagonista, anche quando la principale figura del quadro è maschile. Le battaglie e le sfide più drammatiche si manifestano nei lavori di grandi dimensioni, dove si ispira a figure come David Hockney e ai rulli multifocali cinesi. L’aspetto architettonico e progettuale del suo lavoro trova invece espressione in installazioni e sculture in bronzo, che per lei rappresentano personaggi dipinti resi solidi: uno ‘sputo’ del dipinto, qualcosa che si è staccato dalla tela per acquisire una forma tridimensionale. La sua esperienza nella lavorazione del bronzo è stata arricchita dalla collaborazione con il suo compagno, James Hillman, che ha contribuito a una comprensione più approfondita del processo di produzione. In questo ambito, Mangoni si ispira a scultori che hanno una pratica bidimensionale significativa nel loro lavoro come Cy Twombly, Phyllida Barlow e Kiki Smith.

Ha da poco terminato una commissione di grandi dimensioni per la Biennale di Gubbio e sta collaborando con ArtNoble Gallery e Lunetta per una mostra a Casa Gramsci, dove i quadri di soldati borbonici e cavalieri volsci servono come set per le sculture del ceramista Roberto Tersigni, di Sora.

Oltre a portare avanti le cosiddette ‘commissioni equine’, che esplorano immaginari legati agli animali, sta lavorando su un archivio del Piccolo Teatro Senese del Palazzo Sergardi Biringucci, dopo la mostra Verzura, curata da Caspar Giorgio Williams. L’intervento realizzato alla Triennale di Milano è invece parte di una serie di lavori stratificati, che utilizzano linguaggi diversi messi insieme a livello performativo.

La difficoltà principale in questa fase del suo lavoro è riuscire a far emergere la parte sociale della sua ricerca mantenendo integra la forza intima e privata della sua pittura, un equilibrio che va ricercato anche nel bilanciamento tra il desiderio di raccontare il processo generativo e quello di produrre opere che abbiano in sé una forza a prescindere dal contesto e dal racconto.

I soggetti rappresentati nelle sue opere sembrano figure che interpretano un ruolo, spesso archetipi geolocalizzati in contesti specifici, in grado di raccontare un senso di appartenenza territoriale. Ogni volta che dipinge tali soggetti, Mangoni si avvicina sempre di più a storie personali, guadagnando gradualmente un nuovo approccio artistico in cui l’esplorazione dell’intimità legata alla memoria emerge sempre più in superfice.