Enrico Tealdi

Cuneo 1976
Vive e lavora a Cuneo
Studio visit di Giacinto Di Pietrantonio con Gail Cochrane e Vittorio Falletti

La visita allo studio di Enrico Tealdi si è svolta in condizioni particolari, in quanto l’appuntamento è stato preceduto da una visita alla collezione La Gaia di Brusca insieme alla consulente d’arte e coordinatrice presso il Politecnico di Torino Gail Cochrane e all’economista della cultura Vittorio Falletti docente presso l’Università di Torino. Qui abbiamo visitato il nuovo allestimento tra opere di Kiefer, Pascali, Holzer, Kelly, Schutte e altre ancora. Va da sé che, dopo una visita del genere, quella allo studio di Tealdi, sito nella campagna di Cuneo, veniva messa a dura prova, anche se, a specchio, diventava una prova decisiva per capire l’importanza del suo lavoro. Nonostante il nostro fuoco incrociato, la prova è stata superata con buoni voti per i motivi che vi dirò: Intanto, da subito, si è messo l’artista di fronte alle sue ─ e alle nostre ─ responsabilità, chiedendogli se avesse una qualche coscienza di cosa mancasse alla sua opera, se ci fosse qualcosa che ancora non lo soddisfacesse. La risposta è stata «Sì, perché non sono mai contento fino in fondo di quello che faccio, essendo la mia una pittura in progress e quindi in continua maturazione, però non cancello e non distruggo, al massimo rivedo dopo tanto tempo». Essenzialmente, abbiamo notato che quella di Tealdi è una pittura stratificata, rivolta alla creazione di due generi: il ritratto e il paesaggio, oltre che visivamente diversi tra loro, traggono ispirazione da due soggetti opposti: la scultura e la natura, ma unificati dalla memoria.

I ritratti sono visi sbeccati e scrostati dall’uso e dal tempo in quanto tratti dai volti delle statuine del presepio e simili, che l’artista possiede da quando era piccolo insieme con altre acquistate nei mercatini, luoghi di compravendite di memorabilia e memorie. Immagini plastiche provenienti da soggetti sacri folklorici e, quindi, da come la cultura popolare ha filtrato ─ anche attraverso le statue in gesso dei santi presenti nelle nostre chiese, ─ la pittura d’origine di grandi maestri a cui si è inizialmente ispirata. «Sono dipinti ─ dice l’artista ─, ispirati anche alle facciate affrescate delle cascine e delle edicole votive come agli affreschi dei palazzi nobiliari abbandonati e usati dai contadini come magazzini». Ciò ha dato all’artista l’interesse per il luogo lasciato andare e vissuto. Questa migrazione e, insieme, inerzia iconografica focalizzata sull’immaginario popolare può essere letta come un filtro di memoria neorealista non di persone specifiche ma di una umanità infinita. Il tema del paesaggio, d’altra parte, oltre a essere filtrato dall’osservazione diretta della natura dove l’artista è cresciuto, passa anch’esso attraverso il filtro della cultura artistica. Difatti, si tratta di paesaggi fatti a memoria, o di memorie, nel senso dei ricordi personali, o di memorie fotografiche di ignoti. Paesaggi dai colori suggeriti, sfocati, con una pittura pulviscolare “leonardesca”, ma anche romantica, alla Friedrich. Opere luminose e chiare, come nei primi esemplari, o cupe, come in quelli più recenti, fatte di un verde scuro e marcio e che, in qualche modo, esprimono, anche nel titolo (Dopo l’Apocalisse) il denso pandemico buio esistenziale da cui siamo “forse” appena usciti.

Bisogna poi aggiungere che per quanto i ritratti siano a prima vista immediati, all’opposto, i paesaggi sono al primo sguardo respingenti, avendo bisogno di tempo per essere accettati. Così è stata la mia, e quella dei miei compagni, impressione ed esperienza; vale a dire che più guardavamo questi paesaggi e più essi prendevano forza, facendosi densità visiva aperta, introducendoci non più al paesaggio, ma nel paesaggio dal quale non si sarebbe più voluto uscire, sentendo anche il profumo dei settemila petali di rosa.