Silvia Rosi

Scandiano 1992
Vive e lavora a Londra e a Lomé
Studio visit di Alessandra Troncone realizzato il 10 gennaio 2024
20 febbraio 2024

Dopo un primo avvicinamento alla fotografia avvenuto presso Spazio Labò a Bologna, Silvia Rosi ha proseguito i suoi studi a Londra dove, nel 2016, si è laureata in Fotografia al London College of Communication della University of the Arts. Il suo curriculum annovera la partecipazione a numerose mostre collettive in prestigiosi contesti internazionali, tra cui la National Portrait Gallery, Les Rencontres d’Arles e il LACMA. Nel 2019 si è aggiudicata il Jerwood/Photoworks Awards e, nel 2022, è stata nominata tra i finalisti del MAXXI Bulgari Prize, dove ha esposto il progetto Teacher Don’t Teach me Nonsense (2022).

Sin dai primi lavori emerge la centralità della sua storia di italiana afrodiscendente: in Election Box, realizzato nei primi anni della sua formazione, l’esperienza di scrutatrice di seggio durante le elezioni è spunto giocoso di riflessione sulla ‘sparizione’ delle persone nella cabina elettorale, ma anche sulla sua presenza in un luogo interdetto a chi non ha la cittadinanza italiana. La scelta dell’autoritratto diviene quindi funzionale per affrontare, da una prospettiva personale, ciò che facilmente diventa un racconto collettivo, caricandosi di messaggi che sfociano in un discorso politico. Nella successiva serie Encounter (2019), è ancora il suo corpo al centro di un’indagine fotografica che attinge da motivazioni storiche e antropologiche: partendo dall’evoluzione della fotografia vittoriana, e in particolare dalla tradizione del ritratto in studio dell’Africa occidentale, l’artista ragiona sui processi di autorappresentazione che attribuiscono agli oggetti di scena un ruolo fondamentale nel costruire l’immagine della persona ritratta. A quelli che alludono al desiderio dell’Occidente, Rosi sostituisce elementi che, invece, rimandano a episodi di vita reali, come la presenza dei pomodori nel ritratto paterno che allude allo sfruttamento dei migranti in Italia come braccianti nei campi, di cui egli stesso ha fatto esperienza. I membri della sua famiglia, padre e madre, sono impersonificati dall’artista stessa, che si cala in un ipotetico album di famiglia per raccontare il proprio vissuto attraverso quello dei suoi genitori.

La necessità di focalizzarsi sulle dinamiche della propria famiglia, attingendo al proprio passato ma anche attraverso altri tipi di archivi, acquista un peso rilevante nella più ampia riflessione sui processi di immigrazione, sui retaggi coloniali e sulla perdita di alcune tradizioni nel passaggio tra contesti diversi, come ad esempio quella della produzione e applicazione dello shin (anello di tessuto utilizzato per portare carichi sul capo), al centro dell’opera Mother and Grandmother, Sihin, parte del progetto Encounter (2019). L’esercizio della memoria diviene quindi una pratica fondamentale per riagganciare radici perdute e lavorare sulle conseguenze della diaspora africana.

Al momento di questo studio visit Silvia Rosi si trova a Lomé, dove nell’ultimo periodo è tornata spesso e per periodi sempre più lunghi per avviare un lavoro sugli archivi nazionali del Togo. Parte di queste ricerche è già confluita nel progetto Protektorat, presentato nella mostra Nuova generazione. Sguardi contemporanei sugli Archivi Alinari presso CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, che riporta alla luce alcuni documenti del periodo coloniale tedesco in Togo, evidenziando la lotta per l’egemonia della lingua tra colonizzatori nelle colonie africane. È inoltre in produzione un nuovo progetto per la mostra in programma nella primavera 2024 presso la Fondazione Maramotti, che si concentrerà su archivi di famiglia emiliani con l’obiettivo di restituire un paesaggio delle presenze afrodiscendenti nel territorio della regione.

Se il più recente interesse dell’artista nei confronti di archivi che esulano dalle memorie più strettamente personali e familiari si presta ad ampliare in maniera interessante il suo campo di ricerca, sembra necessaria, in questa fase, una più precisa definizione della metodologia di interrogazione e di indagine.

Sempre in relazione alla ricerca più recente, lo sguardo alla dimensione linguistica, quale ulteriore strumento per una riflessione identitaria, rappresenta un elemento suscettibile di ulteriori approfondimenti e potenzialmente estendibile anche al dialogo tra media diversi, come già avviene nella relazione tra fotografia e video esplorata dall’artista nei suoi trittici e nelle sue installazioni.

Foto di Anna Arca