Nello Petrucci

Castellamare di Stabia (NA) 1981
Vive e lavora tra Pompei e New York
Studio visit di Marcello Francolini
27 luglio 2024

La percezione dipende dal punto di vista: pensavo questo sull’E45, venendo da Napoli in direzione Pompei. Alla partenza il Vesuvio era una forma rassicurante, il ‘Grande Padre’, come si usa apostrofarlo nella sapienza popolare. All’altezza di Ercolano lo si vede di profilo, poi tra Torre del Greco e Torre Annunziata gli si gira attorno per poi, infine, arrivati a Pompei, stargli direttamente al di sotto, con una forma di enorme possanza, inscrutabile. Quest’ultima ‘forma’ non cancella la prima, cosicché, l’immagine che ci facciamo delle cose, così come del Vesuvio, appare come un montaggio concettuale. Un’avvertenza utile per riconoscere le immagini, così come le opere, e nello specifico quelle prodotte dall’artista Nello Petrucci.

Giunto sul posto, incontro l’artista. Scendiamo nel suo studio, come un bunker al piano interrato, cementato a vista, con gli spazi suddivisi da diversi tavoli da lavoro. Alcuni armadietti contengono, come degli archivi, giornali, poster e riviste legate in special modo alla cinematografia. Ma più che documenti è un archivio di materiali; essi vengono poi selezionati, ritagliati, fotocopiati, scannerizzati, quasi con l’intento di costruire dall’amalgama i giusti toni da utilizzare nella propria ‘tavolozza’. I fondi sono costruiti per serie, secondo una prassi pittorica che si sviluppa su azioni concettuali ridondanti. Selezionare, disgiungere, aggiungere e congiungere, strato su strato. Tutta la ricerca di Petrucci è incentrata su quest’ambiguità della forma, per cui l’azione dell’osservatore deve procedere in modo stratigrafico, a ritroso, riconnettendo i diversi livelli di significato.

L’uso concettuale dell’immagine come giustapposizione di più elementi ha permesso nell’ultimo biennio di espandere la ricerca sul piano ambientale, dalla scultura e alla street-art, quest’ultima impiegata attraverso stencil o grandi wall pre-assemblati, ma anche sul piano cinematografico, con la produzione di corti d’autore, in cui l’artista passa spesso dal ruolo di regista a quello di produttore. Una volta ha creato un ristorante come un’opera d’arte, poi si è disimpegnato mantenendo solo la proprietà sull’idea, e incassandone i risultati.

Un’arte che viene praticata come un’azione necessaria, ma anche metodica, che muove alla costruzione di un capitale reputazionale crescente, dall’installazione site-specific Trame (2021) nel giardino dello Spazio Thetis, all’Arsenale di Venezia, alla partecipazione al progetto No man is an island del Padiglione del Grenada a cura di Adriano Pedrosa, con l’opera la danza dell’abisso (2024).

Lo scorso anno, al Museo Scalvini di Villa Tittoni, con una mostra a cura di Chiara Canali, e con un testo critico di Luca Beatrice, presenta Profili (2023), una serie completamente nuova di opere che risentono della sperimentazione urbana, con l’utilizzo della tecnica dell’halftone, creando così monocromie a bassa definizione, che rendono l’immagine opaca e discontinua, aumentando così la partecipazione mentale dell’osservatore. Questi profili riemergono dai due contesti più indagati da Petrucci: la classicità romana e la cinematografia neorealista. In queste opere i punti del retino fotografico diventano visibili esibendo i vuoti e le lacune che li separano, prestandosi come modelli alternativi per la decostruzione della realtà al fine di un nuovo orientamento visivo. Così l’artista potenzia il montaggio come dinamica di costruzione dell’immagine, dove i suoi soggetti migrano da un supporto all’altro, da un contesto all’altro e da un tempo storico all’altro, in un meccanismo pienamente postmoderno di ridefinizione concettuale di idee e contenuti. Non mancano mai riferimenti all’attualità, soprattutto di fronte all’incombenza della guerra, in Medioriente o in Europa, come nel caso di Hell (2023), in cui l’artista recupera l’immagine del Cristo rimossa dalla Cattedrale armena di Leopoli per essere preservata dai bombardamenti in corso. O ancora un fardello appeso alle mani di un altro Cristo con la scritta “Leo” fa allusione all’indiscriminata produzione di armi nell’industria italiana.

Ecco, più che di opere parleremmo di ‘operazioni’. Ogni operazione è espletata come un urlo sul mondo, in stile Bukowski. Di certo, a correre dietro le storture di questo XXI secolo, non si fa in tempo a denunciarne una che ne fuoriescono altrettante di più. In questo ruolo da testimone, non tutte le denunce mantengono la stessa forza espressiva, ma la coerenza è data da questo suo impegno politico, che riesce a colmare un vuoto oggi troppo evidente, tra l’informazione dei fatti e l’uso di questa informazione perpetuata dal Potere.