Michele Spanghero

Gorizia 1979
Vive e lavora a Monfalcone
Studio visit di Stefano Coletto

Ciò che contraddistingue Michele Spanghero è la precisione con cui ti parla e l’attenzione con cui ascolta. Ti stupisce la sua capacità di creare cornici di senso nei contesti che incontra. Uno sguardo al sito internet, completo ed essenziale. Scarichi il portfolio e ti sembra di sfogliare una piccola pubblicazione; qui Michele contestualizza, analizza e richiama i suoi lavori, curando i dettagli della documentazione fotografica. L’attenzione all’impaginato, ai testi, ai sintagmi potremmo dire, forse proviene dalla sua laurea in Lettere moderne. Dal 2003 partecipa a concerti e festival nazionali e internazionali come lo StaalPlaat a Berlino,  Tempo reale a Firenze, Neue Musik a Vienna, il Klub Gromka a Ljubljana. Quindi il coinvolgimento in mostre collettive dedicate alle ricerche emergenti; oltre alla Bevilacqua La Masa, l’incontro con i curatori Andrea Bruciati, Daniele Capra, Martina Cavallarin. Un balzo di visibilità dal 2013, con la mostra al Mart di Trento e Rovereto all’interno dell’allestimento La magnifica ossessione; ricordiamo il progetto site specific per Stoppage di Liam Gillick al MAGASIN di Grenoble. In ultima il Talent Prize 2015, Hors les murs ai Giardini delle Tuileries, Till It’s Gone a Istanbul, al Museo di Arte Moderna, la presenza alla 16a Quadriennale d’arte a Roma, Point Zero, nel Festival più noto per le sperimentazioni elettroniche e digitali nell’arte, ovvero Ars Electronica in Austria. Dal 2011 iniziano le sue partecipazioni alle fiere (Bologna, Milano, Torino, Bruxelles, Colonia, Rotterdam, Barcellona); nel 2009 la collaborazione con la Galleria Mazzoli, riferimento per le ricerca artistiche che operano con le pratiche del suono. Quindi, tra le personali, quelle recenti presso la Galleria Alberta Pane a Parigi e a Venezia.

Il percorso di Michele si caratterizza per una ricerca tra suono e spazio in cui un oggetto scultoreo si materializza come medium. Scultura e suono specificano lo spazio che l’artista incontra. Tra i migliori artisti italiani della sua generazione che lavorano con queste pratiche, il suo lavoro non si distingue per installazioni estetizzanti di cavi e speakers, ma per un approccio minimalista, come la celeberrima opera di Robert Morris Box with the Sound of Its Own Making; non cerca installazioni scultoree barocche, come alcuni lavori di Roberto Pugliese, e neppure una ricerca legata alla sonificazione di dati ambientali. Ha sviluppato il suo percorso anche con field recording, ma mettendolo in questione in spazi apparentemente silenziosi; distante da una ricerca sulla voce e sui rumori liberati nello spazio, come avviene, ad esempio, in certe installazioni di Liliana Moro. A differenza del disordine del suo studio, stupisce l’essenzialità e la cura meticolosa delle sculture prodotte. I cablaggi sono appena visibili, oppure formano rare linee; Il suono pare l’atto finale della sua capacità di progettare in un luogo. Non a caso, il primo lavoro del portfolio è proprio un video fotografico di cavi dell’alta tensione, come linee che emergono dalla sfocatura, dall’annebbiamento.

Uno spunto. Daniel Levitin afferma che c’è una zona dell’emisfero sinistro del cervello che oltre a elaborare la struttura musicale analizza i pattern visivi e linguistici soggetti a temporalità (Fatti di musica, Codice Edizioni, 2008, pp. 110-112). Così ho immaginato che il lavoro sul suono fosse la conseguenza di un lavoro linguistico attraverso le immagini: Studies on the Density of White. In sintesi, potremmo dire: prevalenza della forma degli oggetti e delle sculture (la tanica e le capsule di ferro, tubi di acciaio, cisterna, la sfera di legno, i tubi di alluminio…), quindi niente disegni, materiali poveri, effetti atmosferici… Michele crea un vuoto attorno alle sue installazioni, un po’ come quel monolite di 2001 Odissea nello spazio: gli spettatori diventano come quegli astronauti attratti da un suono misterioso emesso dall’oggetto archetipico. Ecco, vorrei chiedere a Michele; e se chiedessimo troppo ai visitatori che incontrano queste opere? Ascoltare frequenze armoniche e risonanze acustiche di spazi vuoti nell’intersezione con la solidità della scultura non è più difficile che rimanere sedotti da questi oggetti lucenti e riflettenti? Lui dice: What You See Ain’t what You Get, quello che vedi non è quello che ottieni, è vero, le membrane degli speaker si muovono ma non li sento… cosa significa vedere, cosa significa ascoltare? Interrogare il senso del suono… Eppure, mi attraggono le opere che amplificano la tensione all’ascolto e la liberano nello spazio espositivo. Bellissimi i lavori Listening Is Making Sense, Because Tomorrow Comes, Sum, le Nature morte, i Monologues o le sculture negli spazi aperti. Lo spettatore non è un alieno con una intelligenza artificiale ma un corpo che si muove nello spazio, che si sposta, che muta, è anche un rumore da cui non riesce a staccarsi. In questo periodo, mi confessa, «mi piacerebbe svincolarmi dalla necessità di utilizzare il suono… e se lo lasciassi perdere? Guarda questi nuovi lavori…». Vedo delle immagini che sta rielaborando e sembrano annunciare un passaggio. Ma ne dobbiamo riparlare, perché vorrei lasciargli delle impressioni. Ricordo un episodio legato alla produzione di Tuned Volume. L’incontro con il responsabile di produzione dell’azienda produttrice comportò un bellissimo confronto; l’idea di una grande scultura in legno, una forma inattesa, lo sguardo sorpreso e incuriosito del tecnico, la cura con cui Michele parlava e disegnava. Lì ho pensato: Michele è prima di tutto un progettista, un designer sul palcoscenico dove il suono lo ispira.