Francesca Baglieri

Modica 1997
Vive e lavora a Palermo
Studio visit di Daniela Bigi
14 settembre 2023

Francesca Baglieri fa parte della scena emergente palermitana, della quale rappresenta una delle energie propositive grazie all’attività dell’artist-run-space )( Parentesitonde, del quale è cofondatrice insieme a Roberto Orlando, Antonio La Ferlita, Alberto Orilia, Rossella Poidomani e Ilaria Cascino.

Vive a Palermo dagli anni della formazione (ha studiato Pittura all’Accademia di Palermo, con Fulvio Di Piazza e Toni Romanelli, e ha frequentato l’Osservatorio Arti Visive), ma è nata a Modica, in quel sud della Sicilia in cui il rapporto tra spazio costruito, spazio agricolo e natura non contaminata determina una specifica esperienza del paesaggio. Me lo conferma lei stessa mentre mi racconta della sua recente e del tutto atipica esperienza di residenza presso il C.o.C.A. di Modica, una residenza di circa un mese svolta nella propria terra d’origine. «Se il gigantesco ostacolo delle prime settimane è stato ricostruire una coltre di mistero sotto la quale andare alla ricerca di un’estetica, col passare del tempo mi sono resa conto che non erano tanto i frutti del territorio che dovevo raccogliere, quanto indagare sul processo di digestione».

Nel processo di oggettivazione che ha condotto in questi anni per comprendere il ruolo di quel paesaggio remoto nella sua visione del mondo, emerge la consapevolezza della ciclicità. Che non è, banalmente, la ciclicità delle stagioni. È qualcosa di ancestrale che regola la micro e la macro-scala del vivente.

Non si tratta evidentemente di una posizione ‘strapaesana’, né mi pare che Baglieri abbracci ideologie integraliste. Trovo anzi interessante che la sua posizione non ricalchi acriticamente i temi caldi dell’Antropocene ma sia il frutto di un percorso individuale, di una lunga esperienza immersiva nel mondo rurale messa a fuoco successivamente mediante lo studio dell’antropologia e della filosofia. Un percorso in cui la consapevolezza della ciclicità diventa l’angolazione da cui effettuare un campo lungo, o anche lunghissimo, sul presente, per cogliere le temporalità estese e stratificate (di umani, piante, animali e pietre) che lo compongono. Credo che la sua esplorazione del paesaggio risponda a un’esigenza di ancoraggio antropologico, ma anche alla necessità di individuare un terreno di operatività e di comunanza, oltre che al desiderio di mettere a punto un dispositivo interpretativo che possa bilanciare l’esperienza sempre più massiccia nella dimensione del virtuale.

C’è un particolare della sua vita privata che fornisce un quadro più chiaro del suo lavoro pittorico: si tratta di una sorta di condizione sinestetica permanente che la porta, fin dall’infanzia, a trasformare tutto ciò che vede in un numero, una forma e un colore. La sua pittura è quindi fisiologicamente astratta, perché restituisce esattamente la sua percezione della realtà, alla quale si va a sommare un’indagine multidisciplinare e molto accurata sui luoghi: «ho bisogno di capire dove sto poggiando i miei piedi, quali sono le abitudini delle persone che incontro, da cosa derivano i loro caratteri, il loro modo di costruire, di relazionarsi, quale latte bevono e perché…». Di fatto le sue tele, spesso allestite a formare delle scenografie, non ritraggono il paesaggio ma puntano a offrirne un’esperienza percettiva, a fornirne le coordinate e a guidarne la comprensione di assetti e significati. «E poi – mi dice – mi interessa intervenire nei luoghi prolungandoli, predisponendo dei paesaggi da abitare». La vera questione, dunque, diventa la costruzione di porzioni di mondo abitabili e pacificanti, condizioni di cui il corpo possa fare esperienza diretta, senza dover necessariamente fuggire in realtà parallele.

Pittura, paesaggio e condivisione mi sembrano i cardini di tutto il discorso. In termini pittorici, la sua astrazione “sensibile” è convincente e avvolgente, così come convincono le ragioni e le modalità con cui affronta il paesaggio. I suoi progetti migliori sono quelli in cui la pittura diventa fulcro di installazioni complesse, di «prolungamenti camaleontici dei luoghi», e talvolta, perché no, di quinte visive trasportabili en valise.

Concordiamo sul fatto che in questa fase i quadri piccoli e grandi che vivono di vita propria appaiono meno puntuali, meno necessari. La loro qualità pittorica è alta, ma al momento non restituiscono appieno la complessità della sua opera, che ha ancora bisogno di farsi luogo insieme ai luoghi. Ma su questo varrà la pena di tornare tra qualche tempo. È ancora tutto piuttosto mobile.