Domenico Antonio Mancini

Napoli 1980
Vive a lavora a Milano
Studio visit di Nicolas Martino
17 maggio 2024

Nel primo studio visit, uscito ormai più di due anni fa, Francesca Guerisoli faceva riferimento a: «Un ‘dipinto non dipinto’, dunque, che trascina dentro di sé la contingenza e la pervasività dei media digitali nella nostra vita quotidiana». Il riferimento era ai “paesaggi” realizzati attraverso una stringa di google maps stampata su una tela bianca. Una reinvenzione concettuale del paesaggio e del vedutismo (quello napoletano del XIX secolo, in particolare, è un riferimento importante) che è tipica di un artista impegnato a riflettere sulla nostra eredità artistico-culturale mettendola in relazione alla rivoluzione digitale in corso che – come già notava Walter Benjamin nei primi decenni del XX secolo per la fotografia – segna un passaggio d’epoca radicale rispetto allo statuto dell’immagine.

La pratica artistica di Mancini, che passa anche attraverso l’utilizzo di neon che ricostruiscono frasi e slogan “catturati” dalla strada, rimanda in qualche modo a quella artistico-politica di Alfredo Jaar e Claire Fontaine, ma con tratti peculiari che fanno di questo artista uno dei più interessanti nel panorama italiano contemporaneo.

È proprio questo ripensamento della nostra eredità artistico-politica, insieme all’analisi della rivoluzione cognitiva ed estetica in corso, a rendere quello di Mancini un lavoro particolarmente interessante in questo frangente storico. Se l’immagine riproducibile, secondo Benjamin, è un’immagine che oltrepassa la distinzione moderna tra autentico e copia, originale e falso, come funziona, invece, un’immagine costituita da un codice, infinitamente manipolabile e inesistente da un punto di vista materiale? Cosa comporta questo salto di paradigma rispetto alla nostra tradizione visiva? Cosa significa, oggi, dipingere un quadro? Se alla fine degli anni Settanta la pittura diventava, come già dopo la crisi del Rinascimento, manierista e citazionista, oggi il giro di boa è ancora più radicale. Non siamo dentro una scossa di assestamento (lo sganciamento del dollaro dall’oro nel ’71 e la crisi petrolifera del ’73 che aprirono la strada al ciclo economicamente neoliberista e culturalmente ipermoderno), ma dentro una catastrofe antropologico-culturale che determina la trasformazione radicale di quella che abbiamo chiamato realtà.

In questo momento Mancini sta lavorando a un nuovo ciclo chiamato Less Lethal, ovvero opere realizzate con la tecnica di stampa alla trielina nelle quali vengono ingrandite foto delle nuove armi in dotazione alla polizia per mantenere l’ordine pubblico durante le manifestazioni. Armi “morbide”, potremmo chiamarle così, ma in realtà ugualmente letali, che svelano la violenza di quello che potremmo chiamare un soft-power contemporaneo, un potere teneramente micidiale. Si tratta di un’inchiesta visiva sulle trasformazioni del potere contemporaneo dentro società del controllo, come la avrebbe chiamate Deleuze, che però recuperano paradossalmente elementi disciplinari di una condizione precedente. Parallelamente, Mancini sta sviluppando ulteriormente la serie sul paesaggio con schermi neri, verticali come i nostri smartphone, dove compare la rotellina che segna il caricamento delle immagini su Instagram. Come dicevamo prima, si tratta, in questo caso, di un’interrogazione sullo statuto estetico delle immagini nell’epoca della rivoluzione digitale. A queste nuove serie si affianca un’indagine molto interessante sulla dimensione dell’edilizia popolare, dagli anni del ventennio a oggi, che ha visto intrecciarsi le lotte per il diritto alla casa e la trasformazione dei volumi dedicati agli spazi domestici. Non è forse vero che – come avevano notato già alla fine degli anni Cinquanta gli architetti situazionisti – gli spazi che attraversiamo influenzano in maniera determinante il nostro apparato sensorio e cognitivo?

Qui possiamo notare la mancanza di un’indagine sulle psicopatologie del tardo-capitalismo, ma più che un vero e proprio punto di debolezza si tratta di un focus specifico che potrebbe rendere ancora più incisivi i lavori che evocano questo tema specifico. In ogni caso quella di Mancini è una pratica artistica che riesce a cogliere alcune emergenze decisive della nostra contemporaneità e lo fa con una restituzione formale sempre impeccabile.