Iginio De Luca

Formia (LT) 1966
Vive e lavora a Roma
Studio visit di Nicolas Martino
16 luglio 2024

Iginio De Luca, nato in provincia di Latina quasi per caso, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Roma negli anni Ottanta. Artista, musicista, performer, è maturato artisticamente nel clima vivace che si respirava nei primi anni Novanta, fatto di sperimentazioni e fermenti che dal movimento della Pantera, in coincidenza con la caduta del muro di Berlino, avrebbero portato alle manifestazioni di Seattle del 1999. Abituato a intendere l’arte come intervento pubblico, ha esposto in diverse gallerie, ma soprattutto ha occupato, attraversato, trasformato le strade e le piazze di Roma come una sorta di Pasquino contemporaneo pronto a farsi beffe del potere e delle sue arroganze.

Il suo è un lavoro che si sviluppa attraverso foto, video, installazioni e performance, e che senz’altro ha un’ispirazione di derivazione situazionista – rovesciare il significato e rimandarlo al mittente, disorientare lo spettatore non per creare ma per dis-velare il mondo, mettere in pratica una forma di guerriglia semiotica ‒, ma in lui l’impegno serioso della militanza è sempre smorzato da una radicale ironia che rimanda a una forma di scetticismo che si fa visione del mondo e, al tempo stesso, difesa estrema contro ogni forma di ideologia. Ecco perché piuttosto che alla prosa predittiva di certa arte politica si faceva riferimento a quella ironicamente corrosiva delle pasquinate. Del resto De Luca stesso indica come blitz le sue azioni che ruotano intorno alla memoria privata e a quella pubblica, a ciò che è personale e a ciò che è politico (ma sappiamo che il personale è politico), a ciò che è familiare e a ciò che è sociale, mettendo in moto la contraddizione in essere in cui consiste la sua idea di fare arte e che a sua volta coincide con un tratto peculiare del suo carattere. Così Se penso a quel giorno (2011), Le voci di dentro (2016), Solarium (2014-2016), Lavami (2010-2018), Tanto domani piove (2022), Ca Maronn c’accumpagn (2013-2023) sono altrettante tappe di un percorso sempre teso a smontare ed esorcizzare le nostre certezze come le nostre paure e a mettere alla berlina la spocchia dei potenti. In questi lavori si può registrare senz’altro un tratto dada, ma anche una qualche eredità futurista nel piacere per la dissacrazione. Forse potremmo anche definire Iginio De Luca come un mao-dadaista contemporaneo e solitario.

È bene precisare che la dimensione prettamente politica è maturata in un secondo tempo dentro un lavoro che inizia soprattutto come indagine su di sé e sui traumi rimossi della propria infanzia. E questo tratto psicoanalitico è tornato prepotentemente in un lavoro più recente, Tevere Expo (2022), vincitore di Cantica21, sviluppato intorno al fiume che attraversa la capitale e ai reperti, ovvero rifiuti archeologico-consumistici, che emergono continuamente dalle sue acque sempre più torbide. Tevere Expo è testimonianza del rimosso che abbiamo operato non solo nei confronti di un fiume che la modernizzazione ha progressivamente estromesso dal tessuto urbano, ma più in generale della relazione coloniale che abbiamo imposto al vivente non-umano, tanto che qui De Luca sembra proporre l’azione artistica come una sorta di terapia psicoanalitica collettiva, unica via d’uscita – Mark Fisher sarebbe stato probabilmente d’accordo – dall’impasse politica e culturale nella quale siamo caduti. Qui sta, mi pare, il tratto particolarmente interessante di questa proposta artistica nel contesto contemporaneo, ovvero l’idea che l’arte possa essere davvero una pratica estetico-politica quando diventa una forma di terapia psicoanalitica di massa.

In studio sono presenti molte delle opere a cui abbiamo fatto riferimento in queste righe, ma è bene precisare che De Luca spesso rielabora, anche a distanza di anni, i lavori già realizzati portandoli a compimento dentro contesti magari diversi da quelli in cui erano nati, pensando sempre le opere come se fossero in costante divenire e mai compiute. Se dovessimo rintracciare un punto di debolezza, potremmo indicarlo nel limite della sua area di azione, nel senso che tutto questo lavoro potrebbe acquisire ancora maggiore incisività se trovasse più spesso l’occasione di varcare i confini dello stivale. D’altra parte proprio l’idea processuale che lo sostiene fa di questo lavoro, che tende a negare la compiutezza, uno dei più originali della scena italiana.