Valentina Murabito

Giarre (CT) 1981
Vive e lavora a Berlino e Catania
Studio visit di Francesco Lucifora
23 giugno 2024

A partire dal suo spazio di lavoro, passando per specifiche pratiche e arrivando alle sue opere, Valentina Murabito tiene insieme il passato e il presente incarnando nella fotografia una visione del mondo come set storico e antropologico unitario. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Catania, approda nel 2008 all’Accademia Moholy-Nagy di Budapest. Sono passaggi decisivi di intensa sperimentazione, sulle orme dei Raygrams di Man Ray e della pseudo solarizzazione utilizzata dal fotografo tedesco Heinz Hajek-Halke, dopo i quali Berlino diventa luogo di vita e lavoro.

Nel 2015, l’artista decide di lavorare con il nitrato d’argento applicato a blocchi di cemento, lastre di ottone e tessuti. Si apre così una relazione ancora aperta tra fotografia e materia, e difatti nella visita al suo studio si ha la netta sensazione di essere dentro l’antro di un alchimista esoterico. Poco tempo fa, Valentina Murabito ha cambiato spazio per sopravvenute necessità e bisogno di una più consona camera oscura, ma rimane un legame con lo studio dove lavorava in precedenza, nella zona nord di Berlino, un grande locale sotterraneo, un “Luftschutzbunker”: un rifugio per i bombardamenti aerei, un luogo con un’aura quasi mistica, pareti cariche di passato e segni di una vita che si svolgeva nell’oscurità. Nel suo percorso sono decisivi sia il rapporto con Giovanna Giordano, docente di estetica durante la formazione accademica a Catania, sia l’incontro con il gallerista Alfred Kornfeld e l’art director Cristina Wiederbusch.

Il lavoro di Valentina Murabito si basa sulla restituzione di un universo decostruito, ricomposto a partire da entità che da un iniziale anonimato acquistano dignità unica, connotate e stagliate sulla materia, sia essa carta, pietra o metallo. Altre figure, invece, provengono dal mondo arcaico e dalla mitologia, tanto conosciute quanto nei secoli messe da parte, forse per eccessiva esposizione visiva. Nella sua pratica artistica è costante l’esigenza di creare un atto unico e irripetibile, che si liberi dalla tecnica e dal relativo prodotto, allo stesso modo con cui la mano di un essere umano non può muoversi due volte in modo identico; così si approda a dispositivi onirici autonomi che parlano in modo diretto da un tempo sospeso, non assoggettato al dato cronologico. Murabito, nel suo processo fotografico, afferma la persistenza di quell’aura che Walter Benjamin vedeva invece come un elemento destinato a perdersi nella riproducibilità tecnica.

L’artista che ho davanti viaggia con dimestichezza attraverso tempi diversi, ovvero possiede uno sguardo colto sul passato lontano e al contempo indaga con prudenza il presente nella relazione umano-natura, dalla cui indagine provengono le recenti opere su pietra lavica e cemento come Fauno, Oracolo e Paradiso Perduto. Nel presente, dalle ibridazioni, dai corpi e dal mondo animale, le sculture fotografiche si muovono verso la struttura e l’idea di erbario come modulazioni tra ricordo, persistenza ed estinzione.

Nella contemporaneità, l’arte si è fatta sempre più spesso carico e tramite di molteplici messaggi, che siano etici, sociali, politici e sul tema dell’identità – individuale, di genere, nazionale. Murabito è certa di aver contribuito con la sua arte a mettere in crisi questo approccio, se con questo s’intende il riconoscersi in un concetto che resta invariato nel tempo, che ci caratterizza e definisce escludendo qualsiasi metamorfosi e contraddizione. L’artista è adesso concentrata su opere che possano dare sollievo dalla molteplicità contingente della realtà e dalla sua incessante tematizzazione, un tentativo di affrancare l’arte dai suoi legami con l’attualità o dai suoi dialoghi con la politica.

Passaggi lenti e accurati caratterizzano il lavoro di Murabito e sono, in parte, un freno rispetto alla rapidità produttiva richiesta dal mercato dell’arte.

Questo presunto punto debole deriva però dalla forza di una produzione che si nutre della manualità, del tempo dilatato e dell’oscurità necessaria allo sviluppo fotografico. Aggiungo che la scelta di insistere sull’analogico riporta ad un profilo che riconosce il valore dell’azione diretta come trasformazione, come alternanza continua e primordiale tra luce e buio.