Irene Fenara

Bologna 1990
Vive e lavora a Milano
Studio visit di Alessandra Troncone realizzato il 27 settembre 2023
21 dicembre 2023

Di origini e formazione bolognese con studio a Milano, Irene Fenara si trova al momento di questo studio visit a Basilea, per un programma di residenze di Atelier Mondial in collaborazione con MAST. Risale a qualche settimana fa l’annuncio che la vede tra i vincitori del Premio Termoli – il cui riconoscimento consiste in una personale in programma al MACTE nell’autunno del 2024 – mentre ha da poco inaugurato al Museion di Bolzano la collettiva HOPE, nella quale espone al fianco di artisti di fama internazionale. È inoltre presente con una videoinstallazione a Palazzo Bentivoglio a Bologna ed è stata selezionata per il ciclo di mostre Portfolio della Quadriennale di Roma, esponendo a Palazzo Braschi nella primavera del 2023.

La sua ricerca ruota intorno all’immagine, esplorata nella sua dimensione e potenzialità oggettuale: in questo senso gli studi in scultura rappresentano un ideale punto di partenza per sondare il rapporto tra bidimensionalità dell’immagine e tridimensionalità dello spazio, con un approccio che tende a far proprie procedure scientifiche e classificatorie. Ne è un esempio uno dei suoi primi lavori, Ho preso le distanze (2013), esposto alla Fondazione Prada Osservatorio e consistente in una collezione di trentatré polaroid dove la distanza tra l’artista e il soggetto (appartenente alla sfera dei suoi affetti) è registrata in forma di dati riportati sulla cornice stessa della stampa fotografica. Lo sforzo di tradurre un afflato invisibile in qualcosa di concreto ritorna anche nel processo che ne ha reso il lavoro riconoscibile, ovvero l’utilizzo di scatti tratti da circuiti di telecamere di sorveglianza – e dunque ‘salvati’ dall’oblio cui li condanna la cancellazione automatica – che colpiscono per capacità comunicativa e valore estetico.

Nell’appropriarsi di una dinamica che vede protagonista la macchina al posto dell’occhio umano, Fenara sonda i processi generativi dell’immagine e del rapporto di questa con la realtà, ammettendo l’esistenza di una visione alternativa e autonoma. Nel fare ciò, l’artista innesca interrogativi sul rapporto tra essere umano e macchina, incrociando quel filone di ricerca che esplora i concetti di postumano e transumano, ma senza direttamente riferirsi a questo. I processi meccanici vengono talvolta ‘umanizzati’ contro la loro stessa natura, come nel video Struggle for Life che costantemente e forzatamente riorienta lo sguardo dalla telecamera, dal suo obiettivo al cielo. Inoltre, il ricorrere a dispositivi non ipertecnologici e già datati per la produzione e l’acquisizione delle immagini (la macchina polaroid, lo scanner, le telecamere di sorveglianza), fa apparire queste opere in bilico tra tempi diversi, aumentandone il grado di ambiguità e rendendole per questo ancora più intriganti.

Il progetto Supervision, articolato in output anche molto diversi tra loro soprattutto per ciò che concerne tipologia e dimensione di stampa, è attualmente ancora al centro del lavoro dell’artista: le immagini sorprendenti recuperate dalle telecamere di sorveglianza diventano ritratti e paesaggi, mostrando un inaspettato riferimento anche al linguaggio pittorico. Rientra in questa produzione anche l’utilizzo del video, in particolare per l’ultimo lavoro Supervision (Sapporo Recording), un collage di immagini in movimento della durata complessiva di più di nove ore che documenta la vita di un acquario in Giappone e, di riflesso, i movimenti di chi ne abita le vicinanze. L’indecifrabilità di molte di queste immagini accentua il carattere enigmatico del lavoro ma rischia di non rendere leggibile il processo e dunque di non restituire appieno la stratificazione concettuale di esso, che invece ne rappresenta il valore portante e che potrebbe trovare ulteriori sbocchi di emersione.

La produzione di Fenara mostra molteplici e possibili linee di sviluppo, che riguardano sia gli aspetti processuali (in particolare nell’introduzione di algoritmi per la codifica e decodifica delle immagini – come già in Three Thousand Tigers del 2020 – o nell’introduzione di supporti e materiali diversi), sia la ricerca puramente teorica che sollecita la dialettica tra visualizzazione e sparizione dell’immagine, rendendo il suo lavoro particolarmente interessante nel contesto della produzione italiana più recente.