Nebojša Despotović

Belgrado 1982
Vive e lavora a Treviso
Studio visit di Stefano Coletto
26 novembre 2023

Nebojša Despotović appartiene al gruppo dei pittori più interessanti emersi dagli Atelier dell’Accademia di Venezia negli ultimi quindici anni. Attualmente risiede a Treviso con la sua famiglia, in una palazzina da poco restaurata, in cui sta completando l’allestimento del suo nuovo studio. Il suo lungo curriculum si caratterizza per alcuni snodi rilevanti. Un primo periodo, che possiamo far cominciare nel 2006, ricchissimo di mostre collettive, prima a Venezia, in più occasioni alla Bevilacqua la Masa, poi presso la Galleria A+A e in spazi diffusi in città nelle pause della formazione accademica. Quindi, nel 2010, la prima personale presso la Galleria Boccanera, con la quale avvia un’importante collaborazione pluriennale; a seguire, le partecipazioni alle fiere di Verona, Bolzano, Barcellona, Bologna. Selezionato al premio Cairo, vincitore del premio Euromobil ad ArteFiera e di un grant per uno Studio a Berlino nel 2016, ottiene una visibilità internazionale con le mostre a Lugano, Berlino, New York, Mosca.

Nel 2019, con un’apertura sfortunata a causa della pandemia, il Museo Ettore Fico gli dedica una mostra e un voluminoso catalogo, nel quale un prezioso testo di Andrea Busto ripercorre le tappe del suo percorso stilistico. Nello stesso volume, ispirandosi al libro di Agamben sul significato di “essere contemporaneo”, Eugenio Viola colloca intelligentemente Nebojša nell’ombra del proprio tempo, nell’ombra creata dalla luce del presente. Ecco, Nebojša, sembra partire sempre da lì, ti si rivolge con uno sguardo teso e concentrato, come se cercasse temi radicati negli angoli profondi del proprio io, «ci sono sempre degli universali che parlano», dice: pare sempre uscire da una meditazione profonda sulla memoria, il passato, i fantasmi che abitano l’inconscio. Le fotografie sono le tracce tangibili da cui l’artista inizia, attraverso i dipinti, questo viaggio simbolico.

Le pitture non sono costruite e progettate al computer, perché per Nebojša è essenziale la parte vitale del segno, la frequenza, l’azione sulla superficie seguendo la direzione a cui ti conduce la mano. Si tratta di far camminare il gesto pittorico che esplora lo spazio della tela, le superfici, in un mood anche ludico, dato che l’arte è «il gioco più serio che esista», come afferma in una sua intervista.

La qualità della sua pittura sta in questa abilità di impastare satira e grottesco, espressionismo cromatico e figurativo, narrazione simbolica, gestualità inquieta che stanno alle radici della sensibilità artistica contemporanea, per cui le ombre nei suoi dipinti sono le ombre delle avanguardie del Novecento.

Dopo la sua recentissima personale nel 2023, Another Race of Vibrations, presso la CAR Gallery di Bologna, è in arrivo una collettiva a Hong Kong con altri due artisti italiani. Parliamo così di mercato, di nuove generazioni di pittori trentenni abbagliati dalla visibilità effimera dei social, di orizzonti per le pratiche artistiche che si nutrono anche di libertà espressiva. Dal 2018 si è manifestato in Nebojša l’interesse a mostrare l’espansione possibile del suo spazio pittorico, esponendo materiali, oggetti, carte, stracci sporchi di colore, ed ha sperimentato l’impatto di un display come un grande atelier temporaneo presso l’Antares al Vega, a Mestre. Si discorre sulle tecniche pittoriche, sui i colori e la pittura che sta sperimentando, con il corpo sopra la tela per cui fatichi a controllare i confini dello spazio, dove, afferma, «anche la scarpa può sporcare e dipingere».

Guardiamo al computer molte riproduzioni delle sue tele, impaginando i temi della sua ricerca. Di fronte a noi, appoggiato al muro mi indica un lavoro non finito, il risultato di un ripensamento; «quest’opera era così», indicandomi un’immagine sullo schermo; ora lo spazio è sovvertito e le figure sono esplose violentemente: si tratta dell’olio e acrilico su tela Zum blauen Stern. Ricordo nella mostra di fine residenza negli Atelier della Bevilacqua, nel 2012, la convivenza con i vasi di piante morte lanciati nello spazio come performance da Lia Cecchin. Trovo l’energia luttuosa e violenta di quell’azione in alcune evoluzioni recenti del suo lavoro.

Mi mostra alcuni lavori su tavola su cui sta sperimentando una figurazione scalfita, sgorbiata, quasi a cercarne una consistenza scultorea, inchiodandola sul supporto. Ecco, in questo passaggio a un’iconografia quasi primitivista, etnografica, che pare un nuovo inizio, le intenzioni non sembrano ancora mature.

Dal 2019, con l’arrivo della pandemia, la paura si riversa sulle opere; stanze, camere, salotti, tutto pare avvolto dalla solitudine e dal vuoto; in I Ask No Answer (2021) occhi che non vedono nessuno, i familiari come figure che non ascoltano, isolate nella propria angoscia, e un uomo, che Nebojša chiama il narratore, volge gli occhi a chi osserva per condurlo nello spazio dell’opera; la figura sembra suggerire, «Con chi parlo?». E se fosse il pittore stesso? Raro trovare un artista che ha interpretato in modo così efficace la crisi recente, trasferendo inquietudini in uno spazio multiforme, esorcizzando ciò che affiora dal profondo.