Flavio Favelli

Firenze 1967
Vive e lavora a Savigno
Studio visit di Marco Scotti
29 ottobre 2023

In studio da Flavio Favelli non si passa per caso, bisogna salire da Bologna lungo la strada che porta a Savigno, nel cuore della Valsamoggia, paese conosciuto principalmente per il tartufo e la trattoria da Amerigo (con cui l’artista peraltro ha collaborato in passato per una serie di cartoline).

Una volta arrivati di fronte a un anonimo edificio industriale ci si trova in uno spazio completamente riempito di oggetti, disposti senza apparente ordine. Le prime domande sono quindi inevitabilmente sul significato e la natura di questo luogo. «Sembrerebbe che lo studio, il luogo dove si lavora, abbia più importanza rispetto alle opere e sarà per questo motivo che non le chiamo mai ‘lavori’. Lo studio è una cosa privata di un percorso pubblico perché essere artisti è una faccenda pubblica. E allora il luogo dell’artista sono le opere e non lo studio dove lavora. Sembrerebbe anche che si voglia cercare una conferma che l’artista lavora!, anzi, che almeno lavora!, visto le cose strane che fa, spesso incomprensibili. La cosa ‘vera’ dello studio è avere uno spazio per studiare appunto, solo dedicato a quello. Si vanno a vedere i luoghi di produzione per conoscere, ma questo ha senso per gli artigiani o per le fabbriche, ma nello studio d’artista non c’è nessuna tecnica da imparare, nessun segreto, nessuna cosa interessante, perché il fine è l’opera che, in qualche modo, viene sempre mostrata».

La pratica di Favelli sembra trovare naturalmente i suoi spazi. Per mostrare le sue opere l’artista ha un luogo aperto, espositivo e di confronto con il pubblico, a Bologna lungo i viali. Una galleria personale, Jugopetrol, che prende il nome da quella che era la più importante compagnia petrolifera dell’area balcanica: una sua insegna era apparsa a Favelli in occasione di una mostra in Montenegro e affascinato dalle identità, ambiguità e possibili rimandi personali che questa incarnava è riuscito a portarla faticosamente a Bologna, a illuminare quello che è il luogo dove presenta e riflette sulla sua ricerca in corso e sull’immaginario che ha costruito in questi anni.

E se Favelli è arrivato anni fa a Savigno per vivere e lavorare nel paese, ora è a Montepastore – sempre sull’appennino – che sta pensando a una nuova casa in forma di opera d’arte, uno spazio per viverci e far vivere le opere tra gli interni e un parco, per ospitare artisti e soprattutto per mettere in pratica una progettazione totale e radicale, integrata e visionaria.

E poi ci sono le mostre: con la curatela di Saverio Verini, nuovo direttore della rete dei musei di Spoleto, Favelli ha aperto Intervallo, intervenendo con opere quasi totalmente inedite nelle sale arredate di Palazzo Collicola; ha poi occupato un negozio sfitto nella Galleria Cavour a Bologna, portando una mostra che riflette su conflitti, identità e territorio nel salotto della città, ed è inoltre ospitato alla galleria Farsetti a Cortina, con Lessico americano, un titolo che rimanda alla forza dell’immaginario pubblicitario, richiamato nei collage esposti di carte di cioccolatini, di packaging di gomme da masticare Brooklyn, di francobolli.

Nel rapporto tra spazi e opere è da ricercare uno dei nodi della ricerca di Flavio Favelli. «Nel mio caso si fa confusione e il mio studio viene visto come magazzino di cose del passato, di cose vintage, di recupero, ma le mie opere non hanno nulla a che fare con questo o col riuso, né con l’antiquariato o il modernariato. Presento nuove immagini partendo dai significati degli oggetti, quelli che ritengo cruciali e per quello che rappresentano, oggetti del mio vissuto e della nostra epoca».

Tra i tanti progetti, da quasi una decina di anni Favelli cerca di realizzare pitture murali, opere pubbliche per eccellenza: «È la cosa più difficile che ci sia. In questi giorni ne sto facendo uno qui a Savigno, ma ci ho messo dieci anni per avere i permessi per poterlo realizzare, su una casa abbandonata. È la mia prima opera nel paese dove vivo». Proprio come quello più recente, pensato per i muri del cortile del Mudec, all’interno di Milano Arte Pubblica, I trenta, che rappresenta le copertine di altrettanti passaporti, oggetti di uso comune che rimandano all’identità politica di Paesi scelti tra storie complesse e memorie culturali lontane, che vanno a costruire una griglia geometrica per coprire l’intero edificio.

«Sono le cose più interessanti che sto facendo», ricorda l’artista: un esempio di come interpreti e viva le commissioni pubbliche come spazi di libertà, che restituiscono una prospettiva più ampia su tutta la sua produzione. Al di là dei significati, sempre in equilibrio tra personale e collettivo.