Diego Perrone

Asti 1970
Vive e lavora a Milano e a Napoli
Studio visit di Lorenzo Madaro
20 luglio 2024

La prima personale di Diego Perrone è avvenuta nel 1995 a Viafarini a Milano, mentre risale al 1999 La stanza dei cento re che ridono alla Galleria Massimo De Carlo di Milano e al 2002 la prima mostra, che sancisce l’avvio di una collaborazione duratura, con Casey Kaplan a New York. La mostra di due anni fa al MACRO di Roma, curata da Luca Lo Pinto, con circa sessanta opere su display appositamente progettati e concepiti, ha consentito uno sguardo profondo e dilatato sul suo lavoro, così come una recente monografia su tutto il suo percorso curata da Luca Cerizza. Nel passato ci sono state altre mostre importanti, tra le quali le personali alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino e al MAMbo di Bologna, ma il curriculum dell’artista è molto denso anche sul fronte della partecipazione a mostre corali, come la sua presenza alla Biennale di Venezia nell’edizione del 2013 curata da Massimiliano Gioni.

Ogni sua mostra è per lui occasione di riflessione, naturalmente, anche per un’esaustiva ricognizione sulle radici interne del proprio lavoro, che ad oggi – a distanza di venticinque anni dall’avvio della sua ricerca – sembra nettamente coerente seppur denso di slittamenti, anzitutto linguistici. Perrone infatti ha sempre lavorato su una interconnessione di linguaggi, dalla scultura al disegno, dalla fotografia al video e all’installazione. Ma in tutti questi momenti, che ciclicamente appaiono e scompaiono nel suo itinerario di indagine, ci sono alcuni punti cardinali ferrei da evidenziare. Anzitutto il lavoro sulla percezione; poi quello sulla trasparenza, basti pensare ai disegni a penna biro rossa di questi anni o alle sculture in vetro.

L’artista ha la capacità di tramutare il senso intrinseco di alcuni materiali, perché un altro punto cardinale del suo lavoro è il processo che di volta in volta immagina, progetta e realizza attraverso l’uso dei singoli media. Per esempio, il vetro, che ha caratterizzato una buona parte della produzione scultorea degli ultimi anni, è un materiale per molti versi anti-scultoreo, perché la luce lo penetra, non fa emergere le masse e per certi versi neanche il suo peso specifico né il modellato stesso; ma gli consente di mostrare allo stesso tempo ciò che solitamente nella scultura non vediamo mai, cioè la struttura interna dell’opera, il suo organismo. Mescolando vetri opachi e colorati e trasparenti, l’artista concepisce così dei bassorilievi che possono essere circumnavigati e osservati a distanza ravvicinata. Si scoprono così, in alcuni casi, dei paesaggi che sembrano marini, mentre in altri affiorano ulteriori elementi, immagini che sono pretesti veri e propri, forme figurative che preesistono e che poi si smaterializzano. Perrone, con questi e altri lavori simili, ci sta spingendo verso una sollecitazione costante sul fronte percettivo, ci sta indicando una possibile via per osservare il reale, la sua consistenza e la sua smaterializzazione.

Nella mostra al MACRO, per la prima volta Diego Perrone ha presentato un ciclo di fotografie sovraesposte su cui, negli ultimi mesi, è per certi versi tornato nella casa-studio di Napoli, fotografando in prima persona dettagli di oggetti e di materiali, proseguendo la sua personale investigazione sul fronte della percezione con risultati formali minimal che divengono quasi pittorici una volta stampati su cartoncino 50 x 70 cm, così come accade sui grandi fogli bianchi disegnati a penna biro rossa, con stratificazioni costanti di segni, forme, ondulazioni, che creano una sorta di tessitura materica divenendo per certi versi scultura anch’essa.

Ora sarebbe interessante, come è già accaduto al MACRO, che i linguaggi che concorrono alla costituzione della sua ricerca si intrecciassero con una studiata progettualità in un unico display, per fuoriuscire dalla dinamica della singola opera per diventare sempre di più spazio da percorrere e investigare e da cui uscire, come è stato per la mostra romana, appagati da un’esperienza che non è mai estetica fine a sé stessa, ma anzitutto conoscitiva, sugli slittamenti, sulle metamorfosi e soprattutto sul valore stesso della materia, intrinsecamente levigata come, con altri presupposti, accadeva nella scultura di un artista a cui ha voluto guardare con curiosità, Adolfo Wildt.

Nuove forme di disegno, nuove forme di pittura: è questo che Diego Perrone sta cercando di costituire, attraverso il proprio lavoro degli ultimi anni, una continua ricerca – mai fine a sé stessa – delle tecniche, del comportamento dei materiali e dei processi. Ormai l’artista rientra in una generazione che in Italia, sbagliando, collochiamo ancora nell’alveo dei giovani artisti del Paese, ma ormai sono i cinquantenni di oggi, come tanti nomi suoi compagni di strada e anche di studi a Brera nei formidabili anni di Garutti sui quali bisognerà, appena possibile, formulare una ricognizione esaustiva, non romantica, ma sistematica, ben oltre la nostalgia, studiando partenze, presenze e prospettive dei rispettivi percorsi.