Carlo e Fabio Ingrassia

Catania 1985
Vivono e lavorano a Catania e a Milano
Studio visit di Marcello Francolini
31 gennaio 2024

Nel caso di Carlo e Fabio Ingrassia si procede verso una conoscenza sempre più profonda del loro lavoro. Il primo studio visit è stato realizzato da Francesca Guerisoli (2022), in mezzo vi è la loro partecipazione, con La casa rossa, alla rassegna Quotidiana presso il museo di Palazzo Braschi di Roma, con un saggio di Michelangelo Pistoletto (2023). Non vorremmo qui aggiungere altro, rispetto alla specularità gemellare della loro pratica, tra l’altro ben sintetizzata nello sguardo critico di Guerisoli, che lo tiene come assunto principale del suo pensiero, insieme a quello consequenziale che definisce «sabotaggio dello sguardo». Questa dualità agisce simultaneamente sul piano di lavoro. Due mani, una destra e una sinistra che si muovono circolarmente a partire da un punto. Non sono due segni riconoscibili che si addensano, ma un unico segno venuto fuori dalla negazione di entrambe le paternità. Secondo il maestro del poverismo, nel suo L’arte radicale di Carlo e Fabio Ingrassia (Pistoletto 2023), questo ricongiungimento è speculare all’essere, gli Ingrassia, gemelli monovulari che, condividendo il medesimo DNA, trovano nel luogo dell’agire artistico questo senso di riunificazione. Dunque, non una tecnica, quanto una prassi, una disposizione del corpo all’altro da sé, allo spazio dell’opera come spazio di attesa e di cogenza, in cui le forme sono organizzate entro una situazione interpersonale tale da lasciar sviluppare una rete relazionale di significati secondo uno statuto dell’opera aperta. Mai definita e dunque continuamente definibile, messa in atto, tanto dall’artista che dal fruitore.

A mio avviso, è proprio questa tecnica come una prassi, che connette il loro lavoro su un piano nazionale dell’attuale generazione di artisti operante dagli anni Dieci del XXI Secolo. In questo senso gli Ingrassia fanno della produzione e della presentazione dell’opera un evento linguistico, in cui lo spazio stesso dove l’opera si installa diviene luogo comunicativo tra locutore (l’opera come verbo dell’artista) e interlocutore (fruitore attivo). È questo che permette a un’immagine indefinita di espandersi oltre lo spazio dell’opera, di farsi ambiente e di porsi non tanto come visita, ma come una vera e propria esperienza.

Lo spazio della saletta laterale di Palazzo Braschi viene reso con intenso nero siderale, quasi ambiente – non ambiente, sul cui fondo, come una mèta vi è Astrazione novecentista (la casa rossa). Così hanno continuato gli Ingrassia, Nessun giorno senza una linea (2023), presentato presso la galleria ZERO di Milano. Qui il vuoto è sostenuto da un rosso boreale, il camminamento si fa accecante sino all’incontro di una piccola onda su carta, una vibrazione fresca e salata di potenziale movimento di acqua come energia che si ricrea e frange, e così ancora. D’altronde, li aveva già rivisti sotto una chiave ambientale Lucrezia Longobardi, inserendoli tra i suoi «spazi esistenziali»(2021), dopo l’esperienza alla GAM di Roma, dove un corridoio di attraversamento veniva reimpiegato come una selva luminosa (le ombre dei finestroni proiettati sulla parete opposta).

Si è detto già, che gli Ingrassia producono dei disegni – non disegni, ma a mio avviso non si è inquadrata la qualità performativa del lavoro, che risiede a monte, nella costruzione di un piano soggettivo – non soggettivo. Questi ambienti di luce in qualche modo dematerializzano il reale, portando alla luce lo spazio, come spazio interiore e dunque non soggettivo. In questa circostanza ci si predispone all’opera come esperienza, come dimensione di autorivelazione. In effetti ciò è possibile dal grado concettuale delle proposizioni scelte dagli artisti: una casa isolata parzialmente visibile da una siepe, un’onda di un mare in un posto qualsiasi, e via discorrendo. Ciò ci serve a capire che le immagini stesse non definendosi in nessun paesaggio certo, funzionano come specchi di autorivelazione per ognuno, potendo produrre tutti i possibili paesaggi pensati da tutti i possibili fruitori.

Si dovrebbe in tal senso incedere in questa direzione, rendere esplicita questa espansione stessa dell’opera in modo tale da includervi questo modo della presentazione. Una maggiore aderenza a questo modo dell’ambiente – non ambiente, di insistere sul momento dell’incontro con l’opera, di dilatarlo, visualizzandolo come cammino, percorso, atteggiamento. Ma intanto si lavora a nuove idee costruite sulle colature di lava a pendio sulle pareti dell’Etna. Essa copre, e in un certo senso vela altre forme, le contiene, e dunque ancora un atteggiamento resiliente capace di cogliere ciò che resta come momento propizio, prolifico e polimorfo.

Foto di Andrea Rossetti