Arjan Shehaj

Patos, Albania, 1989
Vive e lavora a Milano
Studio visit di Marcello Francolini
6 ottobre 2023

Riconoscere trame nei cieli notturni. I lavori del giovane artista albanese Arjan Shehaj così simili tra loro da apparire come una grande e ripetuta ridondanza simile a un cielo stellato, così fisso eppure così mutevole nelle sue particolari trame. Uno studio affollato come una via del centro a mezzogiorno, tele, telette e super tele che viste d’insieme appaiono come una variazione su medesimo tema, un’improvvisazione musicale su un paesaggio dinamico e al tempo stesso perturbante.

Il suo genius loci risiede al di là dell’Adriatico, a Patos, cittadina a sud-ovest dell’Albania che costruisce il suo immaginario fino ai quattordici anni, attraverso il contrasto tra natura e artificio. Intrecci di strade impostate sul paesaggio verde trifoglio sono in contrapposizione con le case che puntellano lo sguardo, piccoli appartamenti bassi a pochi piani disposti armonicamente secondo una paletta di colori neutri e terrosi, che si alternano con azzurri, verdi e gialli pastello dell’intonaco delle facciate. Se poi si mescola la seconda parte della vita biografica, legata a Milano e all’Accademia di Brera, si può rivedere questa preminenza fenomenica nella ricerca di Shehaj come una perfetta ridondanza di quei moti retinici che dai filamenti neuronali di Segantini penetrano sui piani astrali futuristi e spazialistisino all’attivazione vibratile della superficie dei monocromatici e dei programmati.

Costruire il presupposto di una forma più che la forma in sé, porta l’artista alla realizzazione di opere come Harta (2021), la cui titolazione significa in albanese carta geografica. Qui, l’apparente bidimensionalità del soggetto naturale iconografico genera un’ambiguità fenomenica con una visione dall’alto. L’unione di supporti e materiali eterogenei porta le pitture di Arjan a non essere solo pitture, ma a essere spazi aperti in cui il fruitore può immergersi completamente, per entrare in ambienti contemplativi intimi e personali ma al tempo stesso assoluti. La sua ricerca è chiaramente visibile in Forme pensiero (2021), la mostra personale curata da Marco Tagliafierro al Bianchizardin di Milano, in cui dipinti-ambienti sono disposti nello spazio come un percorso da seguire; diversi supporti, dimensioni e forme accompagnano verso un cammino volto alla scoperta di un’enigmatica verità. La struttura essenziale di gesti controllati dalla tecnica e la sperimentazione materica in un’opera come Untitled (2019) realizzata a tecnica mista su un cartone quadrato di 32x32cm, permette di riflettere sul tema dell’assenza. L’assenza stessa del titolo ci pone dinnanzi a una cosa quasi concreta, un quasi cielo da osservare nella plastica evidente della sua materia pittorica. L’opposto succede nell’opera Forme (2021); cercando il significato del titolo sul dizionario, si legge come per forma si intenda l’aspetto esteriore di configurazione di un oggetto. Esso basta alla mente come presupposto di una forma. Una forma concreta che tiene insieme dato percettivo e dato fenomenico, quest’ultimo denotato dall’aggiunta dell’ombra come proiezione possibile dell’idea nello spazio concreto.

In questa sua ricerca della forma indeterminata, di opere non completamente definibili, Shehaj è parte di questo contemporaneo zeitgeist dell’indefinitezza come nuovo presupposto della forma così come viene ormai fuori, in modo evidente, tra la nuova generazione di artisti italiani operanti dal secondo decennio del XXI secolo. Di certo anche nell’indeterminazione della forma v’è regola e dunque varietà. In ciò bisognerebbe che l’artista variasse ed espandesse l’archivio delle sue non-forme e mescolasse, aspirasse a una maggiore complessità delle sue composizioni. In tal senso sono già in atto strategie di fuoriuscita dalla tela. Nuovi progetti, nuove esposizioni e nuovi spazi consentiranno all’artista di espandere le sue indagini fenomeniche nell’ambiente.

Questa perseveranza nell’uso della pittura come indagine percettiva appare come una coerente naturalità del sentire, considerando la realtà come connubio di reale e virtuale. Le opere di Arjan Shehaj hanno il pregio di essere completamente indefinite e aperte, lente di ingrandimento del profondo di ogni osservatore, proprio come uno specchio che permette l’osservazione del sé da vari punti di vista e varie prospettive, lasciando spazio a pensieri e sensazioni del tutto irrazionali.