A4C (Art for the Commons)

Collettivo nato a Roma nel 2016 e composta da Rosa Jijón (Quito 1968), Francesco Martone (Roma 1961)
Ha sede a Roma
Studio visit di Nicolas Martino
12 maggio 2024

Composto da Rosa Jijón, artista e attivista ecuadoriana con una lunga carriera alle spalle, e Francesco Martone, attivista da sempre impegnato nelle lotte per l’ambiente e i diritti dei popoli e con una importante esperienza politico-istituzionale, il collettivo nasce con l’idea di dare vita a una piattaforma che si muova al confine tra arte e politica e funzioni anche come luogo di incontro tra le pratiche militanti e quelle creative, in modo da innescare un cortocircuito che superi i limiti di una politica troppo spesso incapace di intercettare la potenza dell’immaginazione e, contemporaneamente, quelli di un’arte che fa fatica a sconfinare oltre i limiti ormai troppo stretti del suo territorio d’elezione.

Quella di A4C è una pratica costitutivamente di confine e che, non a caso, mette al centro della propria indagine la questione dei confini in un mondo al tempo stesso globalizzato e attraversato dalla costruzione di nuove frontiere. Allo stesso modo, fanno parte della sua indagine la questione dei “commons”, quella migrante e quella ecologica ─ intesa come superamento delle categorie fondanti del pensiero occidentale che riconoscono l’esistenza di un universo ordinato gerarchicamente fatto di regni diversi con statuti e diritti diversi lì dove, come insegna la ricerca antropologica e filosofica più attenta, esiste solo il fluire di una stessa vita che si dà in molti modi diversi. Nella loro pratica artistica, quindi, è fondamentale la ricerca teorica che si ispira agli studi post e decoloniali, ad autori come Homi Babha, Eduardo Viveiros de Castro e Anibal Quijano, al postoperaismo di Sandro Mezzadra e Brett Neilson e alle ricerche filosofiche che provano a cogliere le emergenze di un mondo che sta nascendo sulle macerie di quello che ci stiamo lasciando alle spalle.

In questo senso, alcuni loro lavori si segnalano per una particolare incisività. Nel 2022 alla Biennale di Sidney, il collettivo ha presentato il progetto Vilcabamba, de iura fluminis et terrae, una suggestiva installazione visiva e sonora sui diritti dei fiumi e della natura (diritti che iniziano a essere compresi nelle Costituzioni di alcuni Paesi) e che ha poi preso la forma di workshop e seminari sullo stesso tema. Nel 2019 la questione migrante è stata indagata in un libro dal titolo Dreamland, pubblicato da manifestolibri ‒ con saggi e opere, tra gli altri, di Margherita Moscardini, Oliver Ressler, Kader Attia, Jota Castro ‒, e che si poneva l’obiettivo di leggere la frontiera come luogo di produzione di significato. Qualche anno prima, nel 2016, si segnala Dispacci/Dispatches, una performance realizzata nel quartiere africano di Roma per rievocare il rimosso dell’avventura coloniale dell’Italia in Libia, tanto più importante proprio perché quella storia è stata troppo sbrigativamente dimenticata. E, sempre nello stesso anno, un intervento di rara potenza poetica e politica, realizzato presso la Galleria Ex Elettrofonica di Roma, dal titolo From the Shores of Tripoli to the Hills of Moctezuma. Qui la forza dell’utopia riesce a immaginare una comunità mediterranea unita e senza più confini dove nessuno corra più il rischio di affogare nelle acque di un lago salato diventato, grazie alle politiche comunitarie, un cimitero.

Il lavoro di Art for the Commons è complessivamente importante nello scenario contemporaneo perché riesce a intercettare alcuni snodi culturalmente fondamentali della transizione che stiamo attraversando, e lo fa riuscendo a restituire poeticamente la radicalità politica delle questioni affrontate.

Certo, nel nomadismo geografico che caratterizza la sua pratica, un filo teso tra il continente europeo e quello americano, sarebbe forse interessante se il collettivo riuscisse a essere presente sul territorio italiano, intervenendo in modo ancora più incisivo sul funzionamento e la gestione delle istituzioni artistiche locali. E questo perché è particolarmente efficace il modo in cui riesce a far dialogare approcci diversi come quello politico, quello antropologico e quello artistico, dimostrando come anche i confini disciplinari, oltre che quelli geografici, abbiano sempre meno senso se davvero vogliamo comprendere e trasformare la realtà che ci circonda.