Martina Biolo

Padova 1996
Vive e lavora a Padova
Studio visit di Davide Lunerti
1° marzo 2024

Lo studio di Martina Biolo, giovane scultrice laureata all’Accademia di Venezia, si trova in un quartiere residenziale di Padova, nel neonato artist-run space Spazio 1bis. Qui crea sculture e installazioni che intendono raccontare la dimensione umana degli oggetti di uso comune, facendo emergere il loro significato intimo, personale e identitario. Fondamentali per la formazione della sua poetica sono state le teorie sull’oggetto semioforo di Krzysztof Pomian e l’immaginario narrativo del Museo dell’innocenza di Oran Pamuk, dai quali l’artista riprende una concezione dell’oggetto personale come prezioso e sacralizzato, al di là del suo valore sociale e commerciale.

I suoi interventi, sia quelli scultorei sia quelli installativi, presentano sempre una forte correlazione con il calco, un lascito della sua formazione in scultura. I calchi in gesso o in lattice diventano il soggetto stesso dell’opera, ibridazione tra l’oggetto esistente e la versione percepita da coloro che lo utilizzano, in un rapporto di intimità tra i due. La realizzazione del calco non comporta così solamente la trascrizione dei caratteri formali dell’oggetto, ma anche la trasmigrazione delle sue componenti emotive, affettive e relazionali. Questa traduzione non intende essere del tutto fedele, né esente da errori o dallo scorrere del tempo: i materiali scelti si deteriorano proprio come cambia e si trasforma il ricordo. Il calco diventa così un manufatto indipendente che incarna l’espressione fantasmica dell’oggetto da cui è tratto. L’obiettivo di questa pratica, che unisce una progettualità tecnica a un’intenzione concettuale piuttosto originali e distintive, consiste nel contrastare la predisposizione amnetica del nostro rapporto con gli oggetti di uso quotidiano. Biolo tenta, infatti, di concretizzare il vissuto per renderlo visibile, incentivando negli altri processi di consapevolizzazione, per assumere comportamenti attivi nei confronti della realtà che li circonda, che vivono ogni giorno e che finiscono per dare per scontata. Restituendo valore a parti dimenticate della nostra esistenza e rimosse dalla nostra mente, l’artista restituisce importanza alla quotidianità della persona, e di conseguenza, per sineddoche, alla vita della persona stessa. Particolarmente interessante è la componente sociale del suo lavoro, quando l’artista interagisce con una memoria collettiva, riuscendo a ripristinare piccole porzioni identitarie di una comunità. Lo ha fatto durante una sua residenza artistica in Sicilia, in collaborazione con Alessio Barchitta, chiedendo ad alcune famiglie di scegliere un oggetto che raccontasse la loro storia, di cui poi realizzava più calchi. Anche uno dei suoi lavori più recenti, Ti guardo e ti vedo diverso, ha avuto come fulcro la partecipazione collettiva, in un intervento che ha messo in dialogo la popolazione del Comune di Seravezza con un luogo di importanza culturale per la città: la Cappella Marchi, donata al Comune dalla famiglia e da decenni in stato di decadimento e trascuratezza. Allo stesso modo con cui tende a riattivare consapevolezza per oggetti desueti e dimenticati, l’artista qui intraprende un’azione che mira a riportare interesse nei confronti del bene pubblico. Con un’operazione di ‘finto’ restauro realizzato con programmi digitali, l’artista fornisce una riproduzione in scala dell’ambiente che mostra come fosse in passato, o come potrebbe essere in un futuro ipotetico, senza seguire le regole di un restauro tradizionale ma piuttosto una sua versione idealizzata. In uno spazio ricreato all’interno della cappella, circoscritto da tende bianche che ricordano quelle di un baldacchino, Biolo dispone con cura alcune ceramiche che riprendono elementi decorativi della cappella ormai in rovina (palmette, volute). L’ambiente intimo che ne deriva permette al pubblico di usufruire quasi privatamente dello spazio, di sedersi e contemplare un luogo che non aveva mai guardato se non di sfuggita.

L’ultima serie su cui Biolo sta lavorando consiste in una collezione di vasi, la cui realizzazione intreccia tecniche tradizionali e sperimentali. Il processo di creazione prevede l’assemblaggio di ritagli di argilla su un calco semiovale in gesso, dal cui patchwork prende forma la superficie del vaso. Nella parte esterna, Biolo imprime sull’argilla fresca dei centrini realizzati da sua nonna (e in un caso creati da lei stessa, grazie ai suoi insegnamenti), che lasciano impresse ragnatele di reticoli decorativi. L’interno, invece, è placcato in modo da ricordare la madreperla, in una dialettica tra esterno e interno di tradizione e rinnovamento.

Le fasi di progettazione dei nuovi e dei futuri lavori transdisciplinari dell’artista appaiono abbastanza laboriose e complesse da contemplare anche una non totale padronanza tecnica nell’elaborazione pratica.

Ma quella che sembra un’apparente mancanza rende possibile l’occasione di poter lavorare in maniera collaborativa con altri professionisti locali, possibilità che l’artista avverte come un’occasione per rendere la propria pratica ancora più strutturalmente collettiva.