Potenza 1977
Vive e lavora a Potenza
Studio visit di Francesco Lucifora
14 febbraio 2024

L’urgenza della sperimentazione e il radicamento nel territorio sono gli elementi, citati da Chiara Pirozzi, da cui riparto per ritornare sul lavoro di Silvio Giordano. Osservando alcune scene italiane ed europee degli ultimi venti anni, ritrovo nel suo profilo la sintesi di azioni artistiche e culturali specifiche, incarnate da una rete di autori e intellettuali che esprimono scelte radicali in relazione al funzionamento del contemporaneo e all’aspettativa di vedere il proprio lavoro vidimato da altri. Un tempestivo ravvedimento su varie ed eventuali nevrosi da élite che, difatti, emergono nei suoi progetti fotografici e installativi. Sembra che Giordano trovi risposte nella salda memoria del villaggio al quale dedica i propri atti, entrando e uscendo da esso. Credo sia una posizione che caratterizza le provenienze dal Sud, una consapevolezza alimentata da obiettività e distanza dai centri fin troppo mitizzati che, prima dell’arte e del pensiero, spingono verso il fantasma del successo, con rischio latente di egomania e delirio narcisistico. Potenza è la città in cui l’artista sperimenta, la Basilicata è il ‘villaggio globale’ dove mistico, divino e diabolico, tra felicità e sofferenza, lo pongono sempre davanti alla fine come un luogo di rovine dove ritrovare umanità resistente. In una certa misura, l’interesse di Giordano segue le trascorse incursioni di Pier Paolo Pasolini e Mel Gibson, di Brunello Rondi e dell’antropologo Ernesto De Martino.

La contaminazione linguistica è la chiave della sua poetica, l’ostacolo che per molti artisti è rappresentato dal cambio di medium, per Giordano è prassi vitale di ispirazione. Rintraccio connessioni con la ricerca di stupore del pubblico di fronte all’opera, tipica di Robert Gligorov, a cui si aggiunge autonoma declinazione della dissonanza come nel video Cannibal Holocaust (2012), la dimensione della vita e della morte nell’opera MyRoom (2012) e l’indagine su incubo, sonno e realtà espressa nel film The Prince of Venusia (2016). Nel tempo in cui si assiste allo sconvolgimento dei modelli di rappresentazione del corpo nell’arte, l’artista si interroga su tale mutazione, sia essa umana, animale o vegetale. Questa ricerca lo collega all’interesse per mostruosità, genetica e ibridazione che hanno segnato i lavori di Hans Bellmer, Damien Hirst, Ron Mueck e Charles Ray connessi, a loro volta, con il post-human di Stelarc, Orlan, Matthew Barney e Nancy Burson.

Se prendiamo atto della progressiva assenza del pensiero artistico dentro la sfera politica e culturale, allora la posizione di Silvio Giordano procede all’inverso, perché libera da schemi e sovrastrutture; l’artista crede ferocemente nell’arte come movimentazione di idee, pratiche e visioni che oggi sono lasciate alla comunicazione di massa e agli opinion leaders poi trasformatisi in influencers. Intuisco che il suo lavoro, sia video che scultoreo, installativo o da tecnologia generativa, prende le distanze dalla recente modalità da cosplayer dell’arte contemporanea, sempre più lontana dalla militanza culturale.

La serie War Ruins (2024), in corso di produzione, raccoglie opere ibride tra digital photo e A.I. Midjourney V6.0 e rivela il tempismo dell’artista, che non attende di riflettere, a guerra finita, sulle rovine causate dalla guerra. Nello specifico, sono ritratti ravvicinati di soldati, i loro volti sono specchio di quello che producono: ferite, vetri rotti e fratture con un leggero e agghiacciante compiacimento nei confronti di tale disumanizzazione. Spirit (2024) muove dall’antico racconto del Munaciello per approdare alla visualizzazione di spiriti di bambini non più vivi che vagano irrequieti nel mondo, un diretto riferimento all’odierno massacro di innocenti.

Silvio Giordano si espone al rischio di critiche sull’eccessiva aderenza al contingente, in fondo gli ultimi decenni dell’arte hanno prodotto un’idea statica su quale debba essere la distanza temporale tra pensiero artistico e cose del presente. Un’eccedenza di istinto interventista che necessita di doversi, a volte, difendere.

La definizione di ‘eclettico’ mi fa pensare a una parola depotenziata, quasi fino a diventare un peccato per gran parte della critica d’arte; il lavoro di Silvio Giordano, tuttavia, prende forza da uno sguardo tanto poliedrico quanto inattaccabile, derivazione da quanto già stato detto da altri artisti, che lui non ha remore a dichiarare e, con pratica disinvolta, cercando modalità differenti di posizionare la scena, considerando squilibri e paradossi per il futuro prossimo.