Sulla formazione e le sue alternative. Scommettere sui politecnici delle arti

Il celebre testo di Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, pubblicato nel 1979 ‒ famoso come manifesto del nuovo spirito dei tempi, sebbene nato come ricerca scritta su commissione del governo del Québec ‒, ipotizzava che il sapere stesse cambiando di statuto perché le società occidentali stavano entrando «nell’età detta postindustriale e le culture nell’età detta postmoderna»[1]. Seguendo questa traccia, ma adottando un punto di vista antropologico unito alle ipotesi della cosiddetta Scuola di Toronto[2] (relative alla relazione strutturale che unirebbe le forme della conoscenza ai mezzi attraverso cui entriamo in contatto con la realtà) proveremo a tracciare una brevissima analisi della formazione contemporanea, in particolare in ambito artistico, insistendo sulla necessità di una sua radicale riforma.

Se è vero quanto sostiene Walter J. Ong nel suo Oralità e scrittura[3], libro divenuto ormai un classico, e cioè che sia stata l’invenzione della scrittura prima e poi l’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg, a trasformare radicalmente la coscienza e la struttura cognitiva degli esseri umani, determinando una transizione epocale rispetto alla precedente civiltà orale (quella, per intenderci, raccontata dall’epica senza autore esemplificata dai poemi omerici), e legando indissolubilmente, da Platone in poi, il sapere alla scrittura – come analizzato negli anni Sessanta dal filologo classico Eric A. Havelock[4] ‒ allora è possibile pensare, adottando la profondità dello sguardo antropologico a cui accennavamo prima, che oggi le civiltà occidentali stiano attraversando un’altra grande trasformazione. Quella ‘geologica’, che dalla civiltà della scrittura, durata secoli, ci trasporta lentamente ma inesorabilmente dentro un mondo postalfabetizzato nel quale la relazione con il mondo (e quindi anche l’elaborazione del sapere e la sua trasmissione alle generazioni successive) non passa primariamente attraverso la parola scritta, ma piuttosto attraverso le immagini e i suoni degli ipertesti multimediali.

Nel Cinquecento a rendere gli uomini ‘nuovi’, capaci di abitare un mondo fatto essenzialmente di parole scritte, fu la pedagogia inventata da gesuiti e costruita intorno all’assoluta centralità del libro stampato. Se ci riflettiamo, le tracce di quella modernissima pedagogia, all’epoca assolutamente rivoluzionaria, le troviamo ancora oggi nella struttura del nostro sistema formativo: in tutte le scuole, di ogni ordine e grado, si insegna a leggere, scrivere e far di conto, privilegiando l’astrazione di un pensiero logico la cui nascita risulta determinata proprio dall’invenzione della scrittura. Le altre forme espressive, invece, come il disegno, la musica o la danza, soffrono di un’emarginazione che le relega entro una dimensione eccezionale di scelta individuale, mai essenziale nella formazione del cittadino contemporaneo. Quelli artistici, cioè, sono saperi che non vengono considerati fondamentali – come la scrittura e il pensiero logico-astratto – ma piuttosto accessori e originali.

Se proviamo a concentrarci sull’Italia, e sul suo grado più alto di formazione, cioè quello universitario, questa discriminazione è evidente: prendiamo in considerazione il ‘limbo’ in cui vivono le istituzioni di alta formazione artistica e musicale, ovvero le accademie di belle arti, i conservatori, gli ISIA, l’Accademia Nazionale di Danza e l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, che – seppur riconosciute come istituzioni universitarie dalla legge di riforma 508 del 1999 ‒, continuano a vivere in una condizione sospesa, dentro un mondo che non è né scolastico né universitario e che somiglia, piuttosto, a un ‘ghetto’. Uno status che conferma il sospetto per quei saperi e quelle forme espressive non necessariamente trasmesse mediante la parola scritta, e che conseguentemente allarma i custodi del moderno. E allarmato e sospettoso lo deve essere stato anche Giovanni Gentile, il quale – benché attento all’educazione estetica, comunque veicolata mediante una concezione che subordinava la concretezza del fare alla rarefazione del pensare ‒, negli anni Venti disegnò lo spazio ‘eccezionale’ di quelle istituzioni e, nello specifico, delle accademie di belle arti. Da esse sradicò i corsi di architettura (originariamente uno dei percorsi, insieme a Pittura, Scultura e Scenografia, a cui poteva iscriversi uno studente) trasferendoli dentro le università e determinando così l’inizio di una lunga lotta, combattuta ancora oggi dalle Accademie, per il proprio riconoscimento.

Se torniamo a quanto detto prima sulla pedagogia moderna e su una formazione del tutto incentrata sulla strutturale divisione tra sapere manuale a sapere intellettuale, ci rendiamo conto che al giorno d’oggi proprio le accademie di belle arti e le altre istituzioni nominate, da sempre caratterizzate da un’idea di formazione basata sulla stretta connessione tra queste due dimensioni, sembrano essere più al passo con i tempi di altre istituzioni (e non è un caso che le università abbiano iniziato a organizzare al loro interno la dimensione laboratoriale) pur non potendo godere delle risorse finanziare e delle possibilità curriculari del proprio gemello maggiore. Nelle istituzioni AFAM, per esempio, non è ancora stato del tutto normato il terzo ciclo formativo che potrebbe offrire ad artisti, critici e curatori i dottorati di ricerca practice-based, così come avviene da un pezzo in altri Paesi europei[5].

Detto questo, va anche sottolineato come queste istituzioni, nel limbo in cui sono troppo a lungo rimaste intrappolate, abbiano finito per maturare cattive abitudini poco difendibili, come – per fare un esempio piuttosto significativo ‒ un reclutamento del corpo docente che ha spesso tradito l’indispensabile legame tra ricerca e insegnamento (ciò che distingue appunto il ciclo universitario), determinando una distanza incolmabile tra mondo dell’arte e mondo dell’accademia. Certo, è vero che queste istituzioni – dove in passato hanno insegnato artisti e critici come Cesare Vivaldi, Alberto Boatto, Roberto Sanesi, Francesco Leonetti, Fabio Mauri, Giulio Turcato, Toti Scialoja, Luciano Fabro, Sergio Lombardo, Alberto Garutti e molti altri ancora ‒, oggi possono contare su figure significative come quelle di Federico Ferrari, Tommaso Ariemma, Lucrezia Ercoli, Anselm Jappe, Elena Bellantoni, Giuseppe Stampone, Bruna Esposito, Mario Airò tra i molti, ma è anche indispensabile e urgente introdurre un sistema di reclutamento virtuoso che garantisca costantemente la qualità dell’insegnamento e della ricerca, facendo di queste istituzioni, che in passato sono state troppo spesso culturalmente insignificanti e assolutamente marginali, la punta avanzata della formazione universitaria in un mondo, come dicevamo all’inizio, ormai postalfabetizzato. Lo stesso vale per l’accesso alle risorse economiche, indispensabili per avere degli spazi adeguati alle esigenze formative, per la ristrutturazione del piano formativo e dei settori disciplinari, nonché per un’effettiva e paritaria compartecipazione formativa tra pratica e teoria. Bisogna in effetti riconoscere che se le Università hanno per troppo tempo subordinato il fare al pensare, è altrettanto vero che le Accademie sono state figlie di questa stessa discriminazione, proponendo – a parti inverse – una formazione pratica con un po’ di teoria come contorno o, peggio, come ornamento.

Niente di più sbagliato. In un mondo in rapidissima trasformazione, dove la natura del sapere e della conoscenza sta cambiando strutturalmente, le istituzioni di cui parliamo, adeguatamente riformate e messe nelle condizioni di essere effettivamente attrattive per gli studenti di tutto il mondo, potrebbero diventare davvero quelle Università dell’arte da cui partire per ristrutturare l’intero sistema formativo, senza più discriminazione nei confronti di quei saperi e di quelle forme espressive che oggi, più che mai, risultano fondamentali per abitare adeguatamente il mondo che verrà. In questo senso, soltanto una pedagogia del XXI secolo, che tenga insieme i saperi artistici, filosofici e scientifici, permetterebbe di pensare a dei politecnici delle arti che si pongano, come obiettivo primario, quello di formare certamente gli artisti, ma anche, più in generale, i cittadini di domani. Molto, in questo senso, è stato fatto. Ma molto rimane ancora da fare. Per questo è necessario avere un progetto culturale ambizioso, solido e articolato, e insieme una volontà politica in grado di tradurre concretamente quest’idea e cogliere così una grande occasione che è già tra le nostre mani. Come sempre in questi casi, occorre essere tempestivi.

Riferimenti bibliografici

A. Bisaccia, Fabbriche di bello. Per un’università delle arti come infrastruttura della creatività, Sossella Editore, 2023
L. Caramel, F. Poli, L’arte bella. La questione delle Accademie di Belle Arti in Italia, Feltrinelli, 1979
E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, 2019
J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, 2007
W.J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola,Il Mulino, 2014


[1] J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, 2007, p. 9.
[2] La Scuola di Toronto è quella che fa riferimento alle ricerche di una serie di studiosi, Harold Innis, Eric A. Havelock, Marshall McLuhan, Walter J. Ong, che dalla metà del XX secolo concentrarono la loro attenzione sul rapporto esistente tra le tecnologie, la comunicazione e le forme culturali, dando vita a una scuola di studi massmediologici che tuttora prosegue, per esempio con il lavoro di Derrick de Kerckhove.
[3] W.J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, 2014.
[4] E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, 2019.
[5] Su questo e in generale sul processo di riforma delle Accademie e delle istituzioni AFAM, si veda il recentissimo libro di A. Bisaccia, Fabbriche di bello. Per un’università delle arti come infrastruttura della creatività, Sossella, 2023, ma anche il più datato, ma ugualmente interessante per ricostruire la lunga lotta per il riconoscimento di cui si diceva, L. Caramel, F. Poli, L’arte bella. La questione delle Accademie di Belle Arti in Italia, Feltrinelli, 1979.