Brescia 1979
Vive e lavora a Milano
Studio Visit di Elena Forin
8 dicembre 2023

Marta Pierobon si è laureata all’Accaddemia di Belle Arti di Firenze, ha vissuto a New York, e da anni ha trovato il suo universo di ricerca e produzione tra Milano e la Maremma. È da almeno un anno che voglio incontrarla: mi piace il suo immaginario e mi interessa la scultura, che per molto tempo è stata sostituta dall’universo dell’installazione, tralasciando l’idea del togliere e del formare che si accompagna allo sviluppo plastico. Il precedente studio visit di Marco Scotti si è soffermato in maniera emozionale e attenta sulla sua visione e sul suo fare: proverò a restituire altre sfumature di questa indagine tanto ricca e articolata.

Una delle prime domande che le ho rivolto riguarda un concetto diffuso in questi ultimi anni, quello di ibridazione. In realtà non penso che nel suo lavoro si compia una metamorfosi tra immaginario umano e animale, o tra reale e fantastico allo scopo di creare identità terze: credo piuttosto che Pierobon ci mostri come ogni cosa sia composta da parti necessarie che conservano qualcosa di animale (un istinto), di fanciullesco (non infantile), e di fortemente oggettuale e tattile. Questi elementi creano la forma e l’architettura di opere che spesso si costruiscono intorno a uno spazio vuoto ─ che è un rifugio fisico e dell’anima.

Occhi, lingue e dita sono immagini ricorrenti nei suoi lavori: per capirne i motivi basta pensare che tre dita appoggiate su una superficie sono la forma primordiale di un palazzo, che gli occhi servono a vedere, la lingua a conoscere e a scoprire l’universo del sapore. Modellare, scolpire e colorare questi e altri oggetti è quindi un modo per comporre la grammatica con cui raccontare la sua esperienza del mondo. La parola in questa prospettiva ha un ruolo cruciale: i titoli dei suoi lavori (dagli Eyerchive alle Creature manine fino alle Grotto Hands) lasciano trapelare l’ironia giocosa e intelligente con cui affronta ogni viaggio dentro la forma e la materia.

L’argilla, la ceramica e la terra cruda le consentono di lavorare sui codici della manualità, dell’architettura, dello spazio, dei mondi immaginati e di quelli che abbracciano forme naturali e costruite: negli ultimi mesi ha declinato tutti questi aspetti in un ciclo ancora inedito e in fieri strettamente legato a Milano e al suo paesaggio urbano. Questo gruppo di sculture reinterpreta, infatti, una certa varietà di modelli architettonici: l’alfabeto visivo della città è però trasformato nei colori, manipolato nelle forme e ripensato in termini di dimensioni. Pierobon declina infatti gli edifici in chiave oggettuale facendo diventare i palazzi corpi strutturati, ma a grandezza da tavolo, senza però correre il rischio di farli sembrare delle maquettes. L’insieme degli elementi di ogni opera risponde inoltre a un principio organico che intende le singole parti come elementi fluidi e in reciproca continuità: l’artista sospende ogni rapporto funzionale alla logica della costruzione e fa prevalere quello della narrazione e dell’immaginazione. In questa prospettiva, ogni cosa non è mai solo ‘quella’ cosa: una colonna è un dito, un vuoto è una grotta, una catena è una linea chiusa, un volume è una faccia. Ogni opera è un luogo fisico da visitare, uno spazio da abitare, una fantasia da vivere, un rifugio per il silenzio: ed è in questi incessanti movimenti che si libera la potente monumentalità della sua scultura.

Queste caratteristiche si possono riscontrare in tanti cicli di opere diverse: anche quando il mondo animale e fantastico sono predominanti, il meccanismo è lo stesso. Questa peculiarità deriva senz’altro dall’uso della materia, che approda a inganni percettivi sempre nuovi: la resistenza alla temperatura, la metamorfosi e la trasformazione dei colori in cottura, o la persistenza all’aria con la terra cruda, non sono mai certe, e ciò imprime alle forme una vocazione all’instabilità. È proprio in questo aspetto che si libera quella vibrante e gioiosa poesia che appartiene alla sua ricerca, una poesia che però perde molta della sua capacità comunicativa nelle Paoline fuse in bronzo, in cui la forma, pur mossa, non è scossa dallo stesso fremito impresso dalle mani che modellano, e dalla perdita del controllo che necessariamente si ha in cottura.

Spesso suoi lavori sono pensati per essere collocati direttamente a terra, senza troppe strutture a enfatizzare la dimensione espositiva o formale. Ogni serie può essere tra l’altro combinata al proprio interno ─ e nel dialogo con le altre ─ muovendo gli elementi per trovare narrazioni sempre diverse: sarebbe bello vedere un allestimento di tutte le sue opere, per farne dieci, cento, mille, diecimila, milioni di racconti differenti.