Jermay Michael Gabriel

Addis Abeba (Etiopia) 1997
Vive e lavora a Milano
Studio visit di Elisa Carollo
1° ottobre 2023

La pratica di Jermay Michael Gabriel interseca rivendicazioni identitarie e attivismo con una profonda analisi del passato coloniale dell’Italia e delle sue persistenze ideologiche, linguistiche, politiche e socioeconomiche. È evidente dal fervore della sua dialettica come la pratica di Jermay nasca innanzitutto da una esigenza personale, da un bisogno di rivendicazione identitaria del proprio essere italiano nero, di origine etiope ed eritrea poi adottato in Italia. Come lui stesso afferma, la sua ricerca si muove dal Corno d’Africa all’Europa, passando dall’Italia e attraversando ciò che questo implica a livello di passato, presente e futuro geopolitico, ma innanzitutto identitario, delle storie coinvolte su questa tratta.

Gran parte delle opere di Jermay vertono in operazioni di ‘esorcizzazione’ del trauma coloniale, concepito questo come un malessere che persiste e si tramanda fra generazioni, traducendosi in quella che lui definisce una profonda malinconia delle origini, di chi non si sente né pienamente Italiano né più africano. Un sentimento proprio di ogni diaspora che, come recentemente teorizzato da Gilroy, deriva innanzitutto dalla incapacità esterna di riconoscere e propriamente valorizzare un’identità multiculturale che ormai compone le nostre città, anche in Italia.

Molte delle opere recenti di Jermay partono per questo da uno svelamento dei retaggi del passato coloniale e dell’appropriazione indebita di termini concepiti in quel periodo, entrati poi nel vocabolario comune.

Al momento della nostra conversazione l’artista stava preparandosi a una mostra presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Carrara dove espone opere che giocano con le persistenze nelle città italiane di una serie di nomi (Adua, Ambaradan, ecc.), proponendo ai visitatori un immaginario viaggio tra le tappe coloniali di questa toponomastica. Una delle opere è destinata a entrare in collezione ma, come Jermay mi confessa, ci è voluto del tempo prima che la sua pratica venisse veramente accolta dalle istituzioni, in quanto percepita scomoda, aggressiva piuttosto che sovversiva, politicamente ‘problematica’ per i temi affrontati, ancora largamente taciuti o volontariamente evitati, soprattutto nel clima politico attuale, quali il passato coloniale italiano, la condizione degli italiani-africani e in generale delle persone emigrate, nate o da anni nel nostro Paese. Come è possibile costruire il futuro senza prendere piena coscienza del proprio passato? Il risultato è un ripetersi della Storia, invece che il superamento del trauma grazie a una analisi condivisa. Nel trattare di questi temi Jeramy dimostra una consapevolezza precisa della sua condizione di italiano nero adottato e dei privilegi che ne derivano rispetto ad altri giovani della sua età che fuggono dall’Africa alla ricerca di un futuro migliore.

Per questo, spesso coinvolge nelle proprie performance giovani africani italiani o rifugiati, destina a queste comunità inviti delle proprie mostre, nella convinzione che la vera accessibilità è innanzitutto possibilità di poter partecipare, senza barriere non solo economiche ma anche culturali e psicologiche.

La genuina urgenza di espressione e la coerenza, come poi la profonda conoscenza storico-culturale dei fatti di cui tratta, sono i punti di forza della pratica di Jermay: per l’artista l’arte non può essere solo teoria o dialettica, ma azione coerente con la narrazione proposta. Una narrazione che chiede all’Italia e all’Europa di prendere consapevolezza delle responsabilità nei confronti dell’Africa e delle sue generazioni future.

Foto Michela Pedranti