Alice Schivardi

Erba 1976
Vive e lavora a Roma
Studio visit di Nicolas Martino

Alice Schivardi ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera con Alberto Garutti, per poi trasferirsi a Roma. Prima di dedicarsi completamente alla sua attività artistica ha maturato diverse esperienze lavorative in ambito cinematografico, teatrale e artistico, e ha soggiornato e lavorato a New York come artista ospite in residenze artistiche internazionali. La sua ricerca rientra in quella che Nicolas Bourriaud ha chiamato “arte relazionale”, con un’attenzione particolare ai legami e quindi ai ponti affettivi tra le persone, ma anche tra queste e gli altri viventi a noi più o meno vicini, le cose e gli ambienti. La sua opera più famosa è senz’altro quella tuttora in progress dal titolo significativo Ero figlia unica, con la quale ha tenuto una mostra personale particolarmente importante nel 2015 al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro (2015), a cura di Ludovico Pratesi e Paola Ugolini. Si tratta di una sorta di “inchiesta partecipata” ‒ così dovrebbe chiamarsi in termini antropologici – condotta con il mezzo fotografico, attraverso la quale Schivardi, in giro per il mondo, entra in relazione con diverse famiglie appartenenti a culture e contesti linguistici disparati, entrando poco a poco dentro le loro vite quotidiane fino a farne parte. La sua partecipazione “affettiva” al contesto familiare di turno è testimoniata da una serie di scatti fotografici nei quali l’artista è vestita e truccata secondo gli usi e i costumi del caso, facendo ormai parte dell’album di ricordi della famiglia. Si tratta di un’operazione che, se da un lato testimonia il bisogno universale di cura e affetto, dall’altro origina da un’esperienza biografica di Schivardi e da un suo bisogno intimo di costruire relazioni. I legami e i ponti affettivi, del resto, sono – come dicevamo – al centro di una ricerca che si sviluppa attraverso la fotografia, il video, la performance, il disegno ma anche – e forse soprattutto e non a caso – il ricamo, come produzione di un concatenamento tra microstorie personali e affetti, correlazione che costituisce la trama stessa di quel tessuto che è il mondo nel quale viviamo. Così, nello studio è possibile vedere le opere più recenti e appena prodotte, una serie di piccoli ed eleganti ricami ovali incorniciati nella cera che riproducono scene familiari o il mondo delle api, insetto comunitario per eccellenza. A caratterizzare la ricerca di Schivardi è anche un’attenzione particolare al lato oscuro delle relazioni, ovvero a quei “doppi legami” che incatenano morbosamente la vittima e il carnefice che non riescono più a slegarsi. Così, per esempio, nella recente performance Narciso, tenuta nello studio dell’artista, in cui due amanti ‒ ma potrebbero essere anche padre e figlia ‒ rimangono prigionieri delle catene con le quali hanno liberamente e dolorosamente deciso di legarsi. Probabilmente in questa attenzione per l’ambivalenza naturale dei legami – gioiosi e tossici a seconda dei casi – sta l’aspetto più originale della ricerca di questa artista nel contesto della scena artistica contemporanea. In questo senso viene in mente l’opera di Giordano Bruno De vinculis in genere, nella quale la capacità erotica di vincolare può essere allo stesso tempo strumento di assoggettamento e di liberazione, sia a livello individuale che collettivo. Come la magia, del resto. E alla magia rimandano anche le “metamorfosi” in cui consistono altre opere performative dell’artista, come quelle in cui si trasforma nel suo cane ormai scomparso (Abito Blanco) o in un volatile (The Sound of the Wings), o quella in cui assume le sembianze di Mario Fiorentini – celebre partigiano romano – ripercorrendo una delle sue azioni contro gli occupanti tedeschi compiuta in bicicletta (La vita è una ruota). Quello della Schivardi è quindi un lavoro artistico-politico fortemente attraversato dallo sguardo del femminismo, teso com’è a sottolineare la dimensione fondamentale delle passioni e degli affetti, che forse potrebbe crescere ulteriormente se decidesse di indagare anche quella dimensione virtuale nella quale si costruiscono legami non meno “veri”, liberatori e morbosi, di quelli a cui siamo stati abituati fino a non molto tempo fa.

Foto di Mino Togna